Guerre pirriche: differenze tra le versioni

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Gli avvenimenti subito successivi all'attacco tarentino testimoniano la cautela e l'accortezza del gruppo dirigente romano,<ref name="Clementi_35">{{cita|Clementi|p. 35|Clementi2}}.</ref> che, pur senza sottovalutare la situazione,<ref name="Dione_39_6" /> preferì tentare un'azione diplomatica piuttosto che muovere subito guerra a Taranto:<ref name="Dione_39_6">Cassio Dione, ''Storia romana'', IX, 39, 6.</ref><ref name="Zonara_8_2" /> da Roma, non appena si ebbe notizia di quanto era accaduto,<ref name="Appiano_16" /> si decise infatti di inviare a Taranto un'ambasceria guidata da Postumio,<ref name="Dionisio_5_1">Dionisio di Alicarnasso, ''Antichità romane'', XIX, 5, 1.</ref> per chiedere la liberazione di coloro che erano stati fatti prigionieri, il rimpatrio dei cittadini aristocratici espulsi da Thurii, la restituzione dei beni a loro depredati e la consegna di coloro che erano responsabili dell'attacco alle navi romane:<ref name="Appiano_16" /> dal rispetto di tali condizioni sarebbe dipeso il futuro svolgimento delle relazioni tra le due potenze.<ref name="Appiano_16" /> I diplomatici romani, giunti a Taranto, furono ricevuti non senza riserve<ref name="Appiano_16" /> nel teatro da cui i Tarentini avevano scorto le navi attraversare il golfo;<ref name="Dionisio_5_1" /> il discorso di Postumio, tuttavia, fu ascoltato con scarso interesse da parte dell'uditorio, più attento alla correttezza della [[greco antico|lingua greca]] parlata dall'ambasciatore romano che alla sostanza del messaggio.<ref name="Dionisio_5_1" /><ref name="Appiano_16" /> Vittime di risate di scherno da parte dei Tarentini, che si prendevano gioco dell'elequio scorretto e delle loro toghe dalle fasce purpuree,<ref name="Appiano_16" /><ref name="Dione_39_6" /> gli ambasciatori furono condotti fuori dal teatro; nel momento in cui ne stavano uscendo, tuttavia, un uomo chiamato Filonide, in preda all'ubriachezza,<ref name="Dionisio_5_2">Dionisio di Alicarnasso, ''Antichità romane'', XIX, 5, 2.</ref> si sollevò la veste e orinò sulla toga degli ambasciatori con l'intento di oltraggiarli.<ref name="EutropioII,11" /><ref name="Appiano_16" /><ref name="Dionisio_5_2" /><ref name="Dione_39_7">Cassio Dione, ''Storia romana'', IX, 39, 7.</ref><ref name="Zonara_8_2" /><ref name="Floro_5">Floro, Epitome, I, 13, 5.</ref> A tale atto, che ledeva il diritto all'inviolabilità degli ambasciatori, Postumio reagì tentando di suscitare lo sdegno della folla dei Tarentini verso il concittadino; tuttavia, accortosi che tutti coloro che erano presenti nel teatro sembravano aver apprezzato l'atto di Filonide,<ref name="Dionisio_5_3">Dionisio di Alicarnasso, ''Antichità romane'', XIX, 5, 3.</ref> li apostrofò, secondo [[Appiano di Alessandria]], promettendo loro che avrebbero pulito con il sangue la toga sporcata da Filonide,<ref name="Appiano_16" /> o dicendo, secondo la testimonianza di [[Dionisio di Alicarnasso]], "Ridete finché potete, Tarantini, ridete! In futuro dovrete a lungo versare lacrime!"<ref name="Dionisio_5_4">Dionisio di Alicarnasso, ''Antichità romane'', XIX, 5, 4.</ref> Detto ciò,<ref name="Dione_39_8">Cassio Dione, ''Storia romana'', IX, 39, 8.</ref><ref name="Zonara_8_2" /> gli ambasciatori lasciarono dunque la città di Taranto per rientrare in Roma,<ref name="Dionisio_5_5">Dionisio di Alicarnasso, ''Antichità romane'', XIX, 5, 5.</ref> dove Postumio mostrò ai concittadini la toga sporcata da Filonide.<ref name="Appiano_16" />
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Dopo questo affronto i Romani chiesero la liberazione dei prigionieri, il ritorno dei cittadini espulsi da ''Thurii'', il risarcimento dei danni subiti e l’arresto degli autori dei crimini. Le richieste romane non furono comprese perché gli ambasciatori di Roma non parlavano bene il [[lingua greca|greco]]<ref name="AppianoVII,2"/>, furono reputate eccessive e quindi respinte.
Gli ambasciatori giunsero a Roma, senza portare risposte, nel [[281 a.C.]], nei giorni in cui i nuovi [[console (storia romana)|consoli]], [[Lucio Emilio Barbula]] e [[Quinto Marcio Filippo]], entravano in carica;<ref name="Dionisio_6_1">Dionisio di Alicarnasso, ''Antichità romane'', XIX, 6, 1.</ref> Postumio riferì l'esito della sua ambasceria e l'offesa che aveva subito: i consoli, dunque, convocarono il senato, che si riunì per più giorni dall'alba fino al tramonto, per decidere sul da farsi.<ref name="Dionisio_6_1" /> Un certo numero di senatori riteneva poco prudente intraprendere una spedizione militare contro Taranto quando le ribellioni dei popoli italici non erano ancora state del tutto sedate, ma la maggior parte preferì che la decisione di dichiarare guerra a Taranto venisse messa subito ai voti:<ref name="Dionisio_6_2">Dionisio di Alicarnasso, ''Antichità romane'', XIX, 6, 2.</ref> risultarono essere in maggioranza coloro che volevano che Roma si impegnasse all'istante in un'azione militare, e la popolazione ratificò la decisione senatoria.<ref name="Dionisio_6_3">Dionisio di Alicarnasso, ''Antichità romane'', XIX, 6, 3.</ref><ref name="Floro_5" />

Gli ambasciatori giunsero a Roma, senza portare risposte, nel [[281 a.C.]], nei giorni in cui i nuovi [[console (storia romana)|consoli]], [[Lucio Emilio Barbula]] e [[Quinto Marcio Filippo]], entravano in carica;<ref name="Dionisio_6_1">Dionisio di Alicarnasso, ''Antichità romane'', XIX, 6, 1.</ref> Postumio riferì l'esito della sua ambasceria e l'offesa che aveva subito: i consoli, dunque, convocarono il senato, che si riunì per più giorni dall'alba fino al tramonto, per decidere sul da farsi.<ref name="Dionisio_6_1" /> Un certo numero di senatori riteneva poco prudente intraprendere una spedizione militare contro Taranto quando le ribellioni dei popoli italici non erano ancora state del tutto sedate, ma la maggior parte preferì che la decisione di dichiarare guerra a Taranto venisse messa subito ai voti:<ref name="Dionisio_6_2">Dionisio di Alicarnasso, ''Antichità romane'', XIX, 6, 2.</ref> risultarono essere in maggioranza coloro che volevano che Roma si impegnasse all'istante in un'azione militare, e la popolazione ratificò la decisione senatoria.<ref name="Dionisio_6_3">Dionisio di Alicarnasso, ''Antichità romane'', XIX, 6, 3.</ref><ref name="Floro_5" />. Lo storico [[Marcel Le Glay]]<ref>{{Cita|M. Le Glay|pp. 68-69}}.</ref> pone l'accento sulle pressioni di una parte dei politici romani e delle grandi famiglie, tra cui la [[gens Fabia|''gens'' Fabia]], per l’espansione territoriale di Roma verso il [[sud Italia]].


Lucio Emilio Barbula fu dunque costretto a sospendere temporaneamente la campagna che aveva intrapreso contro i Sanniti e fu incaricato dal popolo di riproporre a Taranto, per salvare la pace, le stesse condizioni proposte da Postumio.<ref name="Appiano_17">Appiano, ''Storia romana'', III, 17.</ref> I Tarentini, impauriti dall'arrivo dell'esercito consolare romano,<ref name="Appiano_17" /> si divisero tra coloro che sarebbero stati intenzionati ad accettare le condizioni di pace offerte dai Romani e coloro che avrebbero invece voluto dare inizio alle ostilità; fu in questo contesto che si decise di chiedere l'aiuto del re d'[[Epiro]] [[Pirro]].<ref name="Appiano_17" />
Lucio Emilio Barbula fu dunque costretto a sospendere temporaneamente la campagna che aveva intrapreso contro i Sanniti e fu incaricato dal popolo di riproporre a Taranto, per salvare la pace, le stesse condizioni proposte da Postumio.<ref name="Appiano_17">Appiano, ''Storia romana'', III, 17.</ref> I Tarentini, impauriti dall'arrivo dell'esercito consolare romano,<ref name="Appiano_17" /> si divisero tra coloro che sarebbero stati intenzionati ad accettare le condizioni di pace offerte dai Romani e coloro che avrebbero invece voluto dare inizio alle ostilità; fu in questo contesto che si decise di chiedere l'aiuto del re d'[[Epiro]] [[Pirro]].<ref name="Appiano_17" />

Versione delle 16:03, 28 mag 2009

Guerre pirriche
Voci di guerre presenti su Wikipedia

Le Guerre pirriche furono un conflitto che vide la Repubblica romana affrontare l'esercito invasore del re epirota, Pirro, tra il 280 a.C. ed il 275 a.C., e che ebbe luogo nell'Italia meridionale. Generato in seguito alla reazione della città della Magna Grecia, Taranto, all'espansionismo romano, la guerra coinvolse presto anche la Sicilia greca e Cartagine. Dopo alterne vicende, i Romani riuscirono a battere Pirro, costretto a lasciare definitivamente l'Italia, portando l'egemonia romana su parte della Magna Grecia (ad eccezione della Sicilia).

Contesto storico

Roma

Lo stesso argomento in dettaglio: Esercito romano, Guerre sannitiche e Repubblica romana.

Dopo il superamento del pericolo costituito dalla presenza delle popolazioni galliche a Nord, temporaneamente respinte grazie alla battaglia dell'Aniene, le vittorie su Volsci ed Equi e gli accordi stipulati con Etruschi e Latini, Roma poté avviare, nella seconda metà del IV secolo a.C., un intenso processo di espansione verso il Meridione della penisola italica.[1] La vittoria romana nelle tre guerre sannitiche (343-341; 326-304; 298-290 a.C.) assicurò dunque all'Urbe il controllo di buona parte dell'Italia centro-meridionale; le strategie politiche e militari attuate da Roma - quali la fondazione di colonie di diritto latino, la deduzione di colonie romane e la costruzione della via Appia - testimoniano la potenza di tale spinta espansionistica verso Sud.[2] L'interesse per il dominio territoriale non era infatti una semplice prerogativa di alcune famiglie aristocratiche, tra cui la gens Claudia, ma investiva tutta la scena politica romana, e a esso aderiva l'intero senato assieme alla plebe.[2] A sollecitare l'avanzata verso Sud erano infatti interessi di tipo economico e culturale; a frenarla contribuiva invece la presenza di una civiltà, quella della Magna Grecia, ad alto livello di organizzazione, militarmente, politicamente e culturalmente capace di resistere all'espansione romana.[3]

Raffigurazione pittorica di età romana che rappresenta la battaglia delle Forche Caudine (321 a.C.), in cui i Sanniti sconfissero duramente l'esercito romano.

La strategia romana si basava dunque sulla capacità di rompere i legami di solidarietà tra popoli diversi o tra città, in modo tale da indebolire le capacità di resistenza dei nemici: a tale fine puntavano le deduzioni coloniarie in terra straniera (Luceria nel 315[4] o 314;[3] Venusia nel 291 a.C.)[3] e l'avanzamento verso Sud della via Appia.[3] A tali processi, che non erano direttamente rivolti verso i centri della Magna Grecia, aveva contribuito in particolare l'opera di Appio Claudio Cieco, che, caratterizzato da una forte sensibilità verso la società greca, fu tra i primi ad intendere la fusione tra di essa e il mondo romano come un'occasione di profondo arricchimento per l'Urbe.[5] Egli si era reso, in particolare, interprete delle esigenze della plebe urbana, interessata a intessere rapporti commerciali con i mercanti greci e oschi.[6]

Durante e subito dopo le Guerre sannitiche, Roma mantenne un atteggiamento ambiguo nei confronti dei popoli italici più meridionali, i Lucani, che ora appoggiò ora osteggiò secondo le convenienze del momento. Intorno al 303 a.C. siglò un trattato con i Lucani, incoraggiandone le aspirazioni contro Taranto, salvo accordarsi anche con la stessa città greca e sostenerne indirettamente la lotta contro gli Italici. Il doppio gioco era motivato dalla volontà di includere comunque i Lucani nella propria rete diplomatica, in quel momento tutta tesa a piegare i Sanniti, ma senza che veri interessi comuni propiziassero legami più forti.[7] Rispetto all'ordinamento che Roma stava dando alla Penisola, l'assetto dei territori occupati dai Lucani rimase in uno stato fluido, basato su semplici alleanze, fino alle Guerre puniche.[4]

Non è possibile determinare con precisione quali fossero i rapporti commerciali che univano Roma con i centri della Magna Grecia, ma risulta probabile una certa compartecipazione di interessi commerciali tra l'Urbe e le città greche della Campania, testimoniata dall'emissione, a partire dal 320 a.C., di monete romano-campane.[6] Non è tuttavia chiaro se tali intese commerciali siano state il fattore o il prodotto delle guerre sannitiche e dell'espansione romana verso Meridione, e non è dunque possibile determinare quale sia stato l'effettivo peso dei negotiatores nella politica espansionistica, almeno fino alla seconda metà del III secolo a.C.[8] A determinare la necessità di un'espansione territoriale verso Sud erano, però, anche le esigenze della plebe rurale, che richiedeva nuove terre coltivabili che l'espansione nell'Italia centrale e settentrionale non era bastata a procurare.[8]

Lo sviluppo economico che interessò l'Urbe tra IV e III secolo a.C. portò, comunque, ad un progressivo avvicinamento di Roma all'area magnogreca, ed ebbe, dunque, anche pesanti ripercussioni sugli aspetti istituzionali, culturali e sociali della vita nell'Urbe.[9] Il contesto culturale romano fu fortemente influenzato dalla penetrazione della filosofia pitagorica, presto accettata dalle élite aristocratiche, e dal contatto con la storiografia ellenistica, che modificò profondamente la produzione storiografica romana.[10] Contemporaneamente, lo sviluppo economico favorì l'elevazione politica e sociale di una parte della classe plebea e portò alla scomparsa o all'attenuazione delle antiche forme di subordinazione sociale, come la schiavitù per debiti,[11] garantendo dunque una maggiore mobilità sociale che causò la nascita del proletariato urbano:[12] essa comportò a sua volta un forte aumento della popolazione di Roma, favorì la costruzione di nuove strutture nella città e modificò profondamente gli equilibri sociali.[13]

Al periodo tra il IV secolo e il III secolo a.C. risalgono infine alcuni mutamenti nelle istituzioni militari: al tradizionale schieramento oplitico-falangitico basato sulla centuria, si sostituì l'ordinamento manipolare, che rendeva più agile e articolato l'impiego tattico della legione romana.[14] Contemporaneamente, alla suddivisione delle milizie secondo la classe di appartenenza, prevista dall'ordinamento serviano, si sostituì quella secondo il criterio dell'anzianità,[12] e la base del reclutamento fu allargata, per la prima volta tra il 280 e il 281 a.C., anche ai proletari.[15][16][17][18]

Magna Grecia

Busto di Pirro re dell'Epiro (Palazzo Pitti, Firenze).
Lo stesso argomento in dettaglio: Magna Grecia.

A partire dalla seconda metà del IV secolo a.C., la Magna Grecia cominciò lentamente a tramontare sotto i continui attacchi delle popolazioni sabelliche di Bruzi e Lucani.[19] Le città più meridionali, tra cui Taranto era la più importante grazie al commercio con le popolazioni dell'entroterra e la Grecia stessa, furono più volte costrette ad assoldare mercenari provenienti dalla "madre patria", come Archidamo III di Sparta negli anni 342-338 a.C. o Alessandro il Molosso negli anni 335-330 a.C., per difendersi dagli attacchi dalle popolazioni italiche[20] che, con la nuova federazione dei Lucani, alla fine del V secolo a.C. si erano espanse fino alle coste del Mar Ionio.[21] Nel corso di queste guerre i Tarentini, nel tentativo di far valere i propri diritti sull'Apulia, stipularono un trattato con Roma, di consueto collocato nell'anno 303 a.C. ma forse risalente già al 325 a.C.,[22] secondo il quale alle navi romane non era concesso di superare ad Oriente il promontorio Lacinio (oggi capo Colonna, presso Crotone). La successiva alleanza di Roma con Napoli nel 327 a.C. e la fondazione della colonia romana di Luceria nel 314 a.C.[23][24] preoccuparano non poco i Tarentini che temevano di dover rinunciare alle loro ambizioni di conquista sui territori dell'Apulia settentrionale a causa dell'avanzata romana.[20]

Nuovi attacchi da parte dei Lucani costrinsero, ancora una volta, i Tarentini a chiedere aiuto ai mercenari della "madre patria": fu ingaggiato questa volta un certo Cleonimo di Sparta (303-302 a.C.), che fu, però, sconfitto dalle popolazioni italiche, forse sobillate dagli stessi Romani. Il successivo intervento di un altro paladino della grecità, Agatocle di Siracusa, portò di nuovo l'ordine nella regione con la sconfitta dei Bruzi (298-295 a.C.), ma la fiducia dei Greci delle piccole città dell'Italia meridionale in Taranto e Siracusa iniziò a svanire a vantaggio di Roma, che nel contempo si era alleata con i Lucani ed era risultata vittoriosa a settentrione su Sanniti, Etruschi e Celti (vedi terza guerra sannitica e guerre tra Celti e Romani).[20][25]

Morto Agatocle di Siracusa nel 289 a.C., fu Thurii a chiedere per prima l'intervento romano contro i Lucani nel 285 a.C. e poi nel 282 a.C. In questa seconda circostanza fu inviato il console Gaio Fabricio Luscino per respingere i Lucani, in un primo alleati dei Romani, ma poi ribellatisi, e porre nella stessa Thurii una guarnigione romana. Non passò molto tempo prima che il principe lucano Stenio Stallio fosse sconfitto, come riportano i Fasti triumphales,[26][27] e le città di Reggio (dove fu posta una guarnigione romana di 4.000 armati[27][28]), Locri e Crotone chiedessero di essere poste sotto la protezione di Roma. Quest'ultima si veniva così a trovare proiettata verso il Meridione d'Italia.[20]

Casus belli

L'aiuto accordato da Roma a Thurii fu visto dai Tarentini come un atto compiuto in violazione dell'accordo che le due città avevano firmato diversi anni prima: sebbene le operazioni militari romane fossero state compiute per via di terra, Thurii gravitava pur sempre sul golfo di Taranto, a nord della linea di demarcazione stabilita presso il capo Lacinio; Taranto temeva dunque che il suo ruolo di patronato nei confronti delle altre città italiche venisse meno.[29]

Roma, tuttavia, in aperta violazione degli accordi, forse per la forte pressione esercitata dai negotiatores[27] o forse perché gli accordi stessi erano ritenuti decaduti,[30] nell'autunno del 282 a.C.[31] inviò una piccola flotta duumvirale composta da dieci imbarcazioni da osservazione[32] nel golfo di Taranto;[33] le navi, guidate dall'ex console Publio Cornelio Dolabella,[33] erano dirette a Thurii[29] o verso la stessa Taranto, con intenzioni amichevoli.[34][35] I Tarentini, che stavano celebrando in un teatro affacciato sul mare delle feste[36] in onore del dio Dioniso, in preda all'ebbrezza, scorte le navi romane, credettero che esse stessero avanzando contro di loro e le attaccarono:[34][35] ne affondarono quattro e una fu catturata, mentre cinque riuscirono a fuggire;[33][37] tra i Romani catturati, alcuni furono imprigionati, altri mandati a morte.[37][35]

Lo storico romano Cassio Dione Cocceiano ha proposto tutt’altra versione dell’incidente: Lucio Valerio Flacco, salpato da Roma verso Taranto, attraccò la propria nave davanti alla città[38]. I Tarentini, irritati dall'arrivo dell’imbarcazione e ritenendo che avesse intenzioni aggressive, la attaccarono e la affondarono[39].

Dopo l'attacco alla flotta romana, i Tarentini, convinti dell'atteggiamento ostile di Roma, marciarono contro Thurii, che fu presa e saccheggiata; la guarnigione che i Romani avevano posto a tutela della città ne fu scacciata[27] assieme agli esponenti dell'aristocrazia locale.[33][40]

Gli avvenimenti subito successivi all'attacco tarentino testimoniano la cautela e l'accortezza del gruppo dirigente romano,[40] che, pur senza sottovalutare la situazione,[41] preferì tentare un'azione diplomatica piuttosto che muovere subito guerra a Taranto:[41][35] da Roma, non appena si ebbe notizia di quanto era accaduto,[32] si decise infatti di inviare a Taranto un'ambasceria guidata da Postumio,[42] per chiedere la liberazione di coloro che erano stati fatti prigionieri, il rimpatrio dei cittadini aristocratici espulsi da Thurii, la restituzione dei beni a loro depredati e la consegna di coloro che erano responsabili dell'attacco alle navi romane:[32] dal rispetto di tali condizioni sarebbe dipeso il futuro svolgimento delle relazioni tra le due potenze.[32] I diplomatici romani, giunti a Taranto, furono ricevuti non senza riserve[32] nel teatro da cui i Tarentini avevano scorto le navi attraversare il golfo;[42] il discorso di Postumio, tuttavia, fu ascoltato con scarso interesse da parte dell'uditorio, più attento alla correttezza della lingua greca parlata dall'ambasciatore romano che alla sostanza del messaggio.[42][32] Vittime di risate di scherno da parte dei Tarentini, che si prendevano gioco dell'elequio scorretto e delle loro toghe dalle fasce purpuree,[32][41] gli ambasciatori furono condotti fuori dal teatro; nel momento in cui ne stavano uscendo, tuttavia, un uomo chiamato Filonide, in preda all'ubriachezza,[43] si sollevò la veste e orinò sulla toga degli ambasciatori con l'intento di oltraggiarli.[44][32][43][45][35][46] A tale atto, che ledeva il diritto all'inviolabilità degli ambasciatori, Postumio reagì tentando di suscitare lo sdegno della folla dei Tarentini verso il concittadino; tuttavia, accortosi che tutti coloro che erano presenti nel teatro sembravano aver apprezzato l'atto di Filonide,[47] li apostrofò, secondo Appiano di Alessandria, promettendo loro che avrebbero pulito con il sangue la toga sporcata da Filonide,[32] o dicendo, secondo la testimonianza di Dionisio di Alicarnasso, "Ridete finché potete, Tarantini, ridete! In futuro dovrete a lungo versare lacrime!"[48] Detto ciò,[49][35] gli ambasciatori lasciarono dunque la città di Taranto per rientrare in Roma,[50] dove Postumio mostrò ai concittadini la toga sporcata da Filonide.[32]

Dopo questo affronto i Romani chiesero la liberazione dei prigionieri, il ritorno dei cittadini espulsi da Thurii, il risarcimento dei danni subiti e l’arresto degli autori dei crimini. Le richieste romane non furono comprese perché gli ambasciatori di Roma non parlavano bene il greco[51], furono reputate eccessive e quindi respinte.

Gli ambasciatori giunsero a Roma, senza portare risposte, nel 281 a.C., nei giorni in cui i nuovi consoli, Lucio Emilio Barbula e Quinto Marcio Filippo, entravano in carica;[52] Postumio riferì l'esito della sua ambasceria e l'offesa che aveva subito: i consoli, dunque, convocarono il senato, che si riunì per più giorni dall'alba fino al tramonto, per decidere sul da farsi.[52] Un certo numero di senatori riteneva poco prudente intraprendere una spedizione militare contro Taranto quando le ribellioni dei popoli italici non erano ancora state del tutto sedate, ma la maggior parte preferì che la decisione di dichiarare guerra a Taranto venisse messa subito ai voti:[53] risultarono essere in maggioranza coloro che volevano che Roma si impegnasse all'istante in un'azione militare, e la popolazione ratificò la decisione senatoria.[54][46]. Lo storico Marcel Le Glay[55] pone l'accento sulle pressioni di una parte dei politici romani e delle grandi famiglie, tra cui la gens Fabia, per l’espansione territoriale di Roma verso il sud Italia.

Lucio Emilio Barbula fu dunque costretto a sospendere temporaneamente la campagna che aveva intrapreso contro i Sanniti e fu incaricato dal popolo di riproporre a Taranto, per salvare la pace, le stesse condizioni proposte da Postumio.[56] I Tarentini, impauriti dall'arrivo dell'esercito consolare romano,[56] si divisero tra coloro che sarebbero stati intenzionati ad accettare le condizioni di pace offerte dai Romani e coloro che avrebbero invece voluto dare inizio alle ostilità; fu in questo contesto che si decise di chiedere l'aiuto del re d'Epiro Pirro.[56]

Barbula cominciò a devastare le campagne circostanti la città,[27] tanto che i Tarentini, consci di non poter affrontare a lungo l'assedio romano, cercarono nuovi aiuti questa volta in Epiro, richiedendo l'intervento dell'allora re, Pirro. Quest'ultimo, che aveva avuto un'educazione militare dall'allora sovrano di Macedonia, Demetrio I Poliorcete,[27] accolta la richiesta di aiuto dei Tarentini, desideroso di ampliare il proprio regno ed incorporare la Magna Grecia, compresa la Sicilia (contesa dai Cartaginesi e la città greca di Siracusa), inviò un certo Cinea per comunicare la sua decisione, poco prima che Taranto capitolasse. Scullard scrive che se Pirro non avesse aderito alla richiesta dei Tarentini, il dissidio tra Taranto e Roma si sarebbe risolto facilmente e velocemente.[57] E invece fu la guerra.

Forze in campo

I "carri armati" del III secolo a.C.: elefanti schierati nelle prime linee delle forze epirote.

Epiro, Taranto e Italioti

Sappiamo che gli Italioti (ovvero i Greci della Magna Grecia), dopo aver conferito a Pirro il comando supremo, gli promisero ben 350.000 armati. Il re epirota sbarcò in Italia nel 280 a.C. con circa 25.000 e 20 elefanti[58][59]:

In seguito si unirono 3.000 hypaspistai (sotto il comando di Milone di Taranto).

Repubblica romana

Lo stesso argomento in dettaglio: Esercito romano.

I Romani furono costretti a dividersi su due fronti, poiché la guerra etrusca a settentrione, non era ancora stata portata a termine. Nel 280 a.C. l'esercito romano del fronte meridionale schierato contro Pirro, era composto da circa 20.000 armati ed affidato al console di quell'anno a Marco Valerio Levino,[44][60][59] così suddivisi:

A questo esercito consolare andrebbe aggiunto un contingente di 4.000 armati, inviato a Reggio nel 280 a.C., a protezione della città alleata.[27][28].

Fasi del conflitto

La prima sconfitta romana ad Eraclea (280 a.C.)

Seconda fase della battaglia di Heraclea.
Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia di Eraclea.

Il primo scontro tra gli Epiroti ed i Romani avvenne in Basilicata, nella piana di Heraclea (l'odierna Policoro), nello stesso 280 a.C..[44] Nonostante la sorpresa di trovarsi di fronte gli elefanti da guerra, animali mai visti in precedenza, i Romani ressero bene l'urto fino a sera, anche se la battaglia alla fine si risolse con una sconfitta in cui ne morirono 7.000 (circa un terzo, dei 20.000 iniziali[60]) e 1.800 furono fatti prigionieri.[44] Pirro lasciò invece sul campo "solo" 4.000 armati[60] dei 25.000 iniziali:[58] una "vittoria di Pirro".

Dopo la battaglia, sembrò finalmente cementarsi quell'intesa tra Greci ed Italici in funzione antiromana, che parte dell'aristocrazia tarentina si augurava da tempo.[59] Rinforzi provenienti dalla Lucania e dal Sannio si unirono all’esercito di Pirro. Anche i Bruzi si ribellarono.[65][59] Le città greche d'Italia si allearono con Pirro e a Locri fu cacciata la guarnigione romana. Una scelta analoga sembra si verificò nella stessa Crotone poco dopo.[59] A Reggio Calabria, ultima posizione della costa jonica ancora controllata da Roma, il pretore campano Decio Vibullio, che comandava la guarnigione cittadina, massacrò una parte degli abitanti[66], cacciò i restanti e si proclamò amministratore della città, ribellandosi all’autorità di Roma[67][68].

Pirro aveva appreso che il console Levino sostava a Venosa, impegnato ad assicurare le cure ai feriti e a riorganizzare l'esercito in attesa di rinforzi[69][70], mentre il console Coruncanio era impegnato in Etruria. Pertanto avanzò verso Roma con l'intento di spingere i suoi alleati alla ribellione e di sorreggere gli Etruschi contro Coruncanio.[65] Durante l'avanzata deviò su Napoli con l'intento di prenderla o di indurla a ribellarsi a Roma[71]. Il tentativo fallì e comportò una perdita di tempo che giocò a vantaggio dei Romani: quando giunse a Capua la trovò già presidiata da Levino[72]. Proseguì allora verso Roma devastando la zona del Liri e di Fregellae giungendo così ad Anagni[60] e forse anche a Preneste.[65] Qui ebbe sentore di una manovra a tenaglia progettata dai Romani: gli Etruschi avevano appena concluso la pace, liberando le forze di Coruncanio, che ora stavano muovendo dal nord dell'Etruria contro di lui.[72] Consapevole di non disporre di forze sufficienti per affrontare le armate di Coruncanio, di Levino e di Barbula, decise di ritirarsi.

L'avanzata di Pirro verso Roma (280 a.C.)

In seguito, Gaio Fabricio Luscino venne inviato come ambasciatore presso Pirro per trattare lo scambio dei prigionieri. Pirro fu favorevolmente attratto dalle qualità dell'ambasciatore, il quale non si piegò ad essere corrotto dal re epirota che gli offrì la quarta parte del suo regno.[65][73] Il re epirota, non avendo ottenuto ciò che volava da Fabricio, inviò a sua volta a Roma, un suo fidato consigliere, un certo Cinea, per chiedere le pace, affidandogli anche quei soldati romani fatti prigionieri nella battaglia di Eraclea e dei quali non volle alcun riscatto. L'obiettivo del re epirota era di ottenere l'assenso dal Senato romano a mantenere il dominio sui territori meridionali del suolo italico, finora conquistati.[65] Il Senato respinse la richiesta di Pirro e considerò i prigionieri romani, "infami", poiché erano stati catturati con le armi in pugno, e perciò allontanati. Questiultimi avrebbero potuto essere reintegrati nello Stato romano solo nel caso in cui, ciascuno di loro, avesse consegnato le spoglie di due nemici uccisi.[74]

Pirro, a questo punto, si trovava in seria difficoltà per gli approvvigionamenti: riceverli via mare dall'Epiro era troppo dispendioso. Prelevarli in loco dagli alleati italici, gli avrebbe alienato la loro benevolenza e scatenato probabilmente qualche azione di guerriglia a vantaggio dei romani. Il re epirota, si risolse così a tentare un accomodamento diplomatico col senato romano. Roma venne minacciata di occupazione se non avesse ritirato il suo esercito al di qua del fiume Garigliano e non avesse smesso di compiere sortite con azioni di guerriglia ai danni di epiroti e di tarantini. Ma il console Appio Claudio Cieco (era effettivamente cieco), capofila degli intransigenti, fece fallire le trattative, consapevole dell'appoggio logistico e finanziario di Cartagine, che non desiderava lo sbarco dell'esercito epirota in Sicilia, e conscio della capacità dell'esercito romano nel rimpiazzare le perdite senza problemi, a differenza dell'esercito di Pirro. A Pirro non rimaneva che cercare uno scontro decisivo che obbligasse Roma a piegarsi.

La seconda sconfitta romana ad Ascoli Satriano (279 a.C.)

Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia di Ascoli Satriano e Trattati Roma-Cartagine.

Nel corso del 279 a.C. i Romani si scontrarono con Pirro ad Ascoli Satriano, dove furono nuovamente sconfitti (persero 6.000 uomini) infliggendo tuttavia, in proporzione, perdite talmente alte alla coalizione greco-italico-epirota (3.500 soldati) che Pirro fu costretto a riparare in Sicilia con l'esercito, presso quelle stesse città che pretendeva di proteggere, per evitare ulteriori scontri coi romani. Si narra abbia dichiarato, alla fine della battaglia, «Ἂν ἔτι μίαν μάχην νικήσωμεν, ἀπολώλαμεν» («un'altra vittoria così sui Romani e sarò perduto¹»). Da questo episodio l'uso del termine vittoria di Pirro o pirrica.

E' forse in seguito a questi eventi che Romani e Cartaginesi decisero di stipulare un trattato di alleanza contro il comune nemico epirota. Polibio ci racconta infatti:

«Nel trattato [tra Roma e Cartagine] si confermavano tutti i precedenti accordi, ed in più si aggiungevano i seguenti: nel caso in cui uno dei due stati concludesse un patto di alleanza con Pirro, entrambi erano obbligati ad inserire una clausola che preveda di fornire aiuto l'uno all'altro, qualora venisse attaccato nel proprio territorio; se uno dei due avrà bisogno di aiuto, i Cartaginesi dovranno fornire le navi per il trasporto e per le operazioni militari [...]; i Cartaginesi aiuteranno i Romani anche per mare se necessario, ma nessuno potrà obbligare gli equipaggi a sbarcare se non lo vorranno.»

L'intervento in Sicilia (278-276 a.C.)

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerre greco-puniche.
278 a.C.
Pirro ricevette due offerte allo stesso tempo: da un lato, le città greche di Sicilia gli proposero di estromettere i Cartaginesi (l'altra grande potenza del Mediterraneo occidentale) dalla metà occidentale dell'isola; dall'altro, i Macedoni gli chiesero di salire al trono di Macedonia al posto di re Tolomeo Cerauno, decapitato nell'invasione della Grecia e della Macedonia da parte dei Galli. Pirro giunse a conclusione che le opportunità maggiori venivano dall'avventura in Sicilia e decise, pertanto, di abbandonare l'Italia meridionale e va in aiuto dell'isola, non avendo ottenuto però nessun trattato preciso dai romani. Al comando di un esercito di 37.000 uomini mosse da Agrigento verso Erice e la espugnò: caduta la città filo-cartaginese più fortificata, altre come Segesta[75] e Iato si consegnarono all'epirota. Fu così nominato re di Sicilia, e i suoi piani prevedevano la spartizione dei territori fin lì conquistati tra i due figli, Eleno (a cui sarebbe andata la Sicilia) e Alessandro (a cui sarebbe andata l'Italia).
277 a.C.
Ancora Pirro espugnò Erice, la più munita fortezza filo-cartaginese sull'isola, e questo rese quasi naturale la defezione delle altre città controllate dai punici. Cartagine aveva deciso di non difendere città come Palermo ed Eraclea Minoa , ma concentrò i suoi sforzi su Lilibeo, città che veniva rifornita via mare: fu così possibile ai fenici di sostenere l'assedio posto da Pirro[76].
276 a.C.
Il re epirota intavolò trattative coi cartaginesi. Per quanto essi fossero già pronti a venire a patti con Pirro, e fornirgli denaro e navi quando fossero stati ripristinati rapporti amichevoli, questi richiese che tutti i cartaginesi lasciassero l'isola per fare del mare una linea di confine tra punici e greci. Al loro rifiuto seguì l'assedio infruttuoso di Lilibeo che, unito al suo comportamento dispotico nei confronti delle colonie siceliote, causò un'ondata di risentimento nei suoi confronti: Pirro fu costretto ad abbandonare la Sicilia inseguito dai Cartaginesi ed a tornare in Italia. Il mancato successo finale produsse uno scollamento tra Pirro ed i sicelioti ed egli dovette tornare in Italia prendendo come pretesto la richiesta d'aiuto di Taranto.

Fine della guerra: la battaglia di Maleventum

Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia di Benevento.

Nel frattempo Roma, sempre rifornita abbondantemente da Cartagine, rioccupava senza colpo ferire tutto il territorio precedentemente perduto in Puglia ed in Lucania. Sedata definitivamente la ribellione di Oschi e dei Sanniti (la componente stanziata al confine tra le attuali Campania e Puglia), arrivò nell'inverno del 276 a.C. a porre nuovamente sotto assedio Taranto, per terra e questa volta anche per mare, complice la flotta cartaginese. I tarantini invocarono nuovamente l'aiuto di Pirro, che dovette dunque abbandonare la Sicilia e sbarcare in Lucania.

275 a.C.
Lo scontro definitivo con Roma avvenne nel Sannio, a Maleventum (da allora ribattezzata con il nome di "Beneventum", tramandatosi poi in Benevento), nella tarda primavera di quest'anno. L'intento di Pirro era quello di far togliere l'assedio a Taranto minacciando direttamente Roma. Ma i romani, intuita la strategia dell'epirota, non solo non tolsero l'assedio a Taranto, bensì risposero inviandogli contro tutte le legioni stanziate in Etruria, devastando l'esercito avversario che - oramai - non disponeva più degli elefanti, tutti eliminati nelle azioni di guerriglia seguite allo scontro di Ascoli.

Pirro, per non cadere prigioniero dei romani, dovette far ritorno precipitosamente nel suo regno con quanto rimaneva del suo esercito. Taranto rimarrà sotto assedio altri tre anni, capitolando nel 272 a.C. Roma aveva completato la sottomissione della Magna Grecia.

Conseguenze

A causa della sconfitta Pirro abbandonò la campagna d'Italia e tornò in Epiro, dove, non pago del grave prezzo in uomini, denaro e mezzi della sua avventura a Occidente, due anni dopo preparò un'altra spedizione bellica contro Antigono II Gonata: il successo fu facile e Pirro tornò a sedersi sul trono macedone, dove morì di lì a poco mentre tentava di conquistare il Peloponneso. Taranto rimase sotto assedio altri tre anni, capitolando nel 272 a.C.: Roma aveva completato la sottomissione della Magna Grecia e la conquista di tutta l’Italia meridionale. In seguito alla vittoria romana la città di Maleventum divenne colonia (268 a.C.[77]) e ribattezzata Beneventum (da cui l’odierna Benevento), nome più adeguato alla felice circostanza.

«[I Romani] dopo aver condotto con valore la guerra contro Pirro ed averlo costretto ad abbandonare l'Italia insieme al suo esercito, continuarono a combattere e sottomisero tutte le popolazioni che si erano schierate dalla parte di quest'ultimo. Divenuti così i padroni della situazione, dopo aver assoggettato tutte quante le popolazioni d'Italia...»

Note

  1. ^ Musti, p. 527.
  2. ^ a b Musti, p. 533.
  3. ^ a b c d Musti, p. 534.
  4. ^ a b Giacomo Devoto, Gli antichi Italici, p. 311.
  5. ^ Clemente, p. 43.
  6. ^ a b Musti, p. 535.
  7. ^ Giacomo Devoto, Gli antichi Italici, pp. 299-300.
  8. ^ a b Musti, p. 536.
  9. ^ Gabba, p. 8.
  10. ^ Gabba, p. 9.
  11. ^ Gabba, p. 10.
  12. ^ a b Gabba, p. 16.
  13. ^ Gabba, p. 17.
  14. ^ Gabba, p. 15.
  15. ^ Cassio Emina, frammento 21 Peter.
  16. ^ Orosio, Historiarum adversus paganos libri septem IV, 11.
  17. ^ Agostino, De civitate dei, III, 17.
  18. ^ Ennio, Annales, VI, 183-185 Vahlen (=Gellio, Noctes Atticae, XVI, 10, 1).
  19. ^ H.H.Scullard, Storia del mondo romano, vol.I, p.175.
  20. ^ a b c d H.H.Scullard, Storia del mondo romano, vol.I, p.176.
  21. ^ Giacomo Devoto, Gli antichi Italici, p. 147.
  22. ^ Mario Attilio Levi, L'Italia nell'Evo antico, p.191.
  23. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 26.
  24. ^ Diodoro Siculo, XIX, 72.
  25. ^ Polibio, Storie, I, 6, 6.
  26. ^ Fasti triumphales celebrano per il 282/281 a.C.: Gaio Fabricio Luscino, console, trionfò su Sanniti, Lucani e Bruzi, alle none di Marzo (5 marzo).
  27. ^ a b c d e f g Piganiol, Le conquiste dei Romani, p.181.
  28. ^ a b Polibio, Storie, I, 7, 7.
  29. ^ a b Musti, p. 537.
  30. ^ Grimal, pp. 33-34.
  31. ^ Musti, p. 538.
  32. ^ a b c d e f g h i j Appiano, Storia romana, III, 16.
  33. ^ a b c d Appiano, Storia romana, III, 15.
  34. ^ a b Cassio Dione, Storia romana, IV, 39, 4.
  35. ^ a b c d e f Giovanni Zonara, Epitome, 8, 2.
  36. ^ Floro, Epitome, I, 13, 4.
  37. ^ a b Orosio, Historiarum adversus paganos libri septem, IV, 2.
  38. ^ Secondo lo storico polacco Krzysztof Kęciek, l'aristocrazia romana ordinò ai comandanti Publio Cornelio Scipione e Lucio Valerio Flacco di arrestare i democratici tarentini e i loro sostenitori.
  39. ^ Cassio Dione Cocceiano, Fragmenta Ursiniana CV, del libro IX.
  40. ^ a b Clementi, p. 35.
  41. ^ a b c Cassio Dione, Storia romana, IX, 39, 6.
  42. ^ a b c Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, XIX, 5, 1.
  43. ^ a b Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, XIX, 5, 2.
  44. ^ a b c d Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore EutropioII,11
  45. ^ Cassio Dione, Storia romana, IX, 39, 7.
  46. ^ a b Floro, Epitome, I, 13, 5.
  47. ^ Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, XIX, 5, 3.
  48. ^ Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, XIX, 5, 4.
  49. ^ Cassio Dione, Storia romana, IX, 39, 8.
  50. ^ Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, XIX, 5, 5.
  51. ^ Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore AppianoVII,2
  52. ^ a b Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, XIX, 6, 1.
  53. ^ Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, XIX, 6, 2.
  54. ^ Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, XIX, 6, 3.
  55. ^ M. Le Glay, pp. 68-69.
  56. ^ a b c Appiano, Storia romana, III, 17.
  57. ^ Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore Scullard177
  58. ^ a b Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore Piganiol182
  59. ^ a b c d e f Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore Brizzi127
  60. ^ a b c d Errore nelle note: Errore nell'uso del marcatore <ref>: non è stato indicato alcun testo per il marcatore Piganiol183
  61. ^ a b Polibio, Storie, VI, 20, 8-9.
  62. ^ Livio (Ab Urbe condita libri, VIII, 8, 14) scrive che le legioni erano composte da 5.000 fanti e 300 cavalieri all'epoca della guerra latina.
  63. ^ a b P.Connolly, L'esercito romano, Mondadori, Milano 1976, p.10-11.
  64. ^ Polibio, Storie, VI, 26, 7.
  65. ^ a b c d e Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, II, 12.
  66. ^ Tito Livio, Periochae degli Ab Urbe condita libri, libro XII, 7, su livius.org. URL consultato il 17-04-2009.
  67. ^ Polibio, Storie, libro I, 1, su remacle.org. URL consultato il 17-04-2009.
  68. ^ Diodoro Siculo, Biblioteca storica, libro XXII, 2.
  69. ^ Agostino d'Ippona, La città di Dio, III, 17.
  70. ^ Quinto Ennio, Annales, VI, fr. 183, V.
  71. ^ A. Lagella, La Storia di Napoli, Parte Seconda, pag. 5.
  72. ^ a b L. Pareti, A. Russi, pp. 344-345.
  73. ^ Secondo invece Sesto Giulio Frontino (Stratagemmi, libro IV, III), Cinea, ambasciatore di Pirro, offrì a Gaio Fabricio Luscino una grossa somma di monete d'argento, ma quest'ultimo la rifiutò dicendo di amare "più coloro a cui questo argento appartiene, che l'argento stesso".
  74. ^ Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, II, 13.
  75. ^ Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, XXII, 10, 2
  76. ^ G.E.Di Blasi, Storia del regno di Sicilia, Vol I, Edizioni Dafni Catania, Distribuzione Tringale Editore, ed. del 1844, stamperia Oretea Palermo, pg. 311-314
  77. ^ Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, II, 16; e Fasti trionfali dove si dice: i consoli Publio Sempronio Sofo e Appio Claudio Russo trionfarono sui Piceni nel 268 a.C..

Bibliografia

Fonti primarie

Fonti storiografiche moderne

Voci correlate

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