[go: nahoru, domu]

Vai al contenuto

Carmelo Bene

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Carmelo Bene, attore, poeta e regista italiano. Ritratto di Graziano Origa, pen&ink, 2008

Carmelo Bene (1937 – 2002), autore, attore e regista di teatro e di cinema, scrittore e poeta.

Citazioni

[modifica]
  • [Su Alfiero Vincenti] A pensarci bene, non so mica se sia ancora in vita. Ma questi sono dettagli. Qualche infartino se l'è beccato anche lui, al ritorno da un Romeo e Giulietta a Parigi. Ci dava dentro col bere. Era il mio Leporello, ecco.[1]
  • Aldo era omosessuale, ma non ci fu mai nessun contatto tra noi. Era molto più vecchio di me. Uno dei miei tanti padri. Mi sentì un giorno che leggevo Campana. "Il più grande poeta italiano", disse. M'insegnò con quella sua vocetta a leggere i versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l'altro. Non è poco. Progettavamo insieme come demolire la convenzione teatrale e letteraria italiana.[2]
  • Alfiero Vincenti aveva la stoffa del grande guitto. Grande orecchio, molto intonato, però andava guidato bene da me, perché era un incolto. Ignorante allo stato puro, ma una bestia da palcoscenico. Fu il Gatto nel primo e nel secondo Pinocchio, mia moglie Erodiade in Salomè e poi il Re in Amleto. Un re superbo. Replicato in audio e in video.[3]
  • [Sul Living Theatre al Sarajevo Film Festival] Altissimo il livello dei partecipanti. C'ero io, c'era Foreman, c'era il "Living". Successero cose anche un po' incresciose: il "Living" aveva preceduto tutti con alcuni tir e molti fuoristrada. Si erano piazzati in un lussuoso hotel nella zona europea, lo stesso nostro (ma io e Lydia ce ne andavamo spesso nella zona turca, dove avevo stanato un ristorante da Torquemada del gusto). In pochi giorni il "Living" aveva spazzolato e svaligiato tutti i grandi magazzini della città, lasciati inevasi non so quanti conti. Inevitabile il foglio di via per tutta la banda. Quando arrivammo noi (prendemmo due camere matrimoniali, una per me e Lydia, l'altra per il conte Partanna), se chiedevamo il caffè in camera, succedeva una cosa strana: le cameriere portavano il caffè e si fermavano sulla porta. Ne esigevano il pagamento immediato. Si apprese solo in seguito che era passato Attila, cioè il "Living", e quindi niente caffè se non pagavi subito quei po' di dinari recuperati a tentoni, frugando ovunque e maledicendo tutti, tra il sonno e l'ubriachezza quasi sempre molesta di quelle ore ingrate.[4]
  • Avevo in mente una Salomè punica, africana, mediorientale. Una notte mi telefonò Donyale Luna, già compagna di set in un altro ruolo. "Sono Donyale Luna. Non ti chiedo di recitare Salomè. Io sono Salomè". Aveva ragione. Era Salomè. Perfetta. Andava a dormire presto nella sua bara confezionata su misura, la mattina beveva mezzo bicchiere di latte e menta. Era il suo pasto quotidiano. Morì di anoressia poco tempo dopo la fine delle riprese. Era alta quasi due metri e pesava venticinque chili.[5]
  • Bisogna uscir di pagina, uscir di sé, uscir di senno. Solo Sade ha fatto il miracolo, servendosi della scrittura. Solo io ho fatto il miracolo, servendomi della parola. Per questo dico che ho abbandonato l'al di qua e il mio avvenire è già passato. Io e Sade siamo due divini, lui è marchese, io no. Buonanotte.[6]
  • [Sul "Laboratorio", spazio teatrale aperto nel 1961 a Trastevere] C'era un pagliericcio, una specie di poltrona-letto dove svenivo. Un tavolaccio dove si mangiava, sempre queste penultime cene. Vere e proprie leccornie. Cucinava Manlio Nevastri, in arte Nistri, cinquantenne senese, che utilizzava una bombola a gas e un fornello da campo. Si provava così, bevendo e mangiando in continuazione.[7]
  • Conobbi un altro pazzo davvero interessante. Si chiamava Padre Arpa. Un gesuita. Una specie di mecenate coltissimo. Incoraggiò Fellini e lo difese dagli attacchi della censura, all'epoca della Dolce vita. Finanziò il mio secondo Caligola. Pochi milioni, tanti all'epoca.[8]
  • Contro Braibanti si scatenò la rappresaglia del sociale, la vendetta delle masse. Era l'intellettuale migliore che avesse l'Italia all'epoca. Aveva interessi pittorici, letterari e musicali. Profeta in anticipo di trent'anni. "A tredici anni s'impicca e prima scrive, ciao mamma, tanti saluti a Dracula. La gente dice cuore e vorrebbe dire culo", scriveva. Fu uno dei primi a condannare il consumismo. I "diversi" allora in Italia si contavano. Lui, Pasolini, pochi altri.[9]
  • [Parlando di Nostra Signora dei Turchi] Della qualità del mio film non possono essersi sbagliati in tanti. Sarebbero davvero troppi. C'è da pensare che io qui sia considerato troppo ingombrante, troppo fastidioso, e che sul concetto di qualità quei signori della commissione non avessero le idee chiare. Il mélange che hanno fatto di film premiati è sintomatico. Hanno voluto accontentare un po' tutti, dando la preferenza naturalmente alle organizzazioni grandi e potenti, non in nome dell'arte o della cultura, cui sono estranei, ma col dichiarato proposito di premiare chi più guadagna, cioè — come sempre — la mediocrità.[10]
  • È decorazione l'arte, è volontà di esprimersi.[11]
  • [Su Manuela Kustermann nel Faust] Era una delle operose sartine. Poi sempre con me fece il suo vero debutto in un Amleto all'Arlecchino con Sergio Ammirata che sembrava Tognazzi, tale e quale. La Kustermann non aveva ancora diciassette anni e da Ofelia in camicia da notte non aveva battute, doveva solo prendere tanti schiaffi in scena. Lo sapeva.[12]
  • [Sulla Compagnia D'Origlia-Palmi] Eroi involontari, suggeritori inadempienti dimenticati nelle buche e su tutti, gigantesco, il nonagenario scheletro del cavalier Bruno Emanuel Palmi, crocifisso in scena e interrogato da Madame D'Origlia, alias Maria, mentre un funzionario Siae spazientito reclamava fuori scena il borderò del giorno. "Oh... Dove hai messo il borderò?", implorava la Madonna ai piedi del Cristaccio morente che, con un fil di voce, biascicava: "Nel primo cassetto del baule delle ciglia... nel tuo camerino", per poi spirare. Mai visto più nulla di simile. Grandissimi.[13]
  • [Su Veruschka] Girammo con lei il prologo ispirato alla Santa puttana di Wilde. Era stupenda. Ma rifiutò le lenti castane e il mio efferato professionismo prevalse sulla grande amicizia. Avevo in mente una Salomè punica, africana, mediorientale.[14]
  • Giuseppe da Copertino (nasce pressoché l'anno in cui a Campo de' fiori si arrostisce Giordano Bruno). Personaggio controverso, la chiesa aspetterà quasi ducent'anni per farlo santo. Comprensibile eccesso di cautela. Tutto, nel suo caso, è poggiato sul "danno della carità". Sempre circondato da poveri. Chi orbo, chi storpio, chi deforme. Si aggrappano alla sua tonaca e lui se li porta in alto, salvo poi lasciarli sfracellare al suolo quando la presa dei malcapitati manca. E maciullandosi nella caduta a terra l'altro braccio, l'altra gamba, o la testa, quei pochi miracolosamente scampati. I danni della carità.[15]
  • Giuseppe ha male, ha male veramente. Ha male al male. Ma dentro il cerchio della sua testa ormai si è spalancato quell'altro cerchio aperto della sua bocca, che non premia con l'estasi o il sogno il suo eroe ancora...[16]
  • Il mio epitaffio potrebbe essere quel passaggio di Sade: mi ostino a vivere perché «Anche da morto io continui a essere la causa di un disordine qualsiasi».[17]
  • [Riferito a Marco Van Basten] Il lutto in me per il suo precoce ritiro non si estingue ancora e mai si estinguerà.[18]
  • Il pensiero è un risultato del linguaggio.[11]
  • Io me ne fotto del Ruanda.[19]
  • Io non ho davvero... rapporti con la critica. Sono loro che sono pagati per averne con me. Quindi per loro è un mestiere... Io non sono pagato per avere rapporti con loro. [...] Per capire un poeta, un artista [...] ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista [...] La critica vive dalle 22 alle 24, cioè due ore la sera. Non puoi due ore la sera capire quello che invece io continuo a vivere ora per ora [...][20]
  • In quegli anni, nel '60 mi pare, esce l'Ulysses di Joyce tradotto da Giulio De Angelis, allora poco più che trentenne. Mi ragguagliò sulla sua impresa. Di giorno insegnava inglese a Fiesole, di notte, tutte le notti per undici anni, aveva lavorato alla traduzione dell'Ulysses.[21]
  • Le paghe erano bassissime. Mille lire a spettacolo, mi sembra. Millecinquecento le guadagnava solo il signor Nistri con il quale ci davamo del "voi". Oltre che da cuoco e attore, il signor Nistri si dilettava anche a tempo perso di lavori di falegnameria in cortile.[22]
  • Le più belle pagine dell'Ulysses sono inchiostrate d'anacronismo linguistico. E, in questo caso, la versione del De Angelis, fiorentino colto, non fa rimpiangere l'originale inglese.[23]
  • Madre era meglio che tu restassi | tra le immortali nel profondo giù | del mare | che una mortale Pelèo sposasse | Anche a te sarà strazio | infinito nel cuore | ché morto il figlio non potrai abbracciare | ché l cuore Questo non mi spinge questo | a vivere tra gli uomini | ché il cuore Questo non mi spinge a stare || Tè vicina la morte come dici | Ma qui non v ha ritorno ha da coprirmi | la terra | Madre Un Dio m ha forgiato le armi | immortali Le armi immortali | ma terribile sento | penetrare le mosche | ne le piaghe del ferro brulicare | vermi sfigura il corpo | Questa La Vita è morta | Questa la carne tutta ne marcisce.[24]
  • Mentre con "attore" si intende per solito colui che fa avanzare l'azione, porgendo la voce al personaggio, io mi muovo in senso contrario [...] Ma per far ciò si deve decostruire il linguaggio, spostando l'accento dai significati ai significanti.[25]
  • Mentre gli altri giocano a tennis, Edberg, a mio avviso, è sempre stato il tennis.[26]
  • Orson Welles lo ricordo soprattutto come un attore eccezionale, sublime... Sono convinto che Welles avesse in testa un meraviglioso brusio, grazie anche al suo stupendo alcol, e che fosse un genio, ma non mi va di rinchiuderlo in una definizione: era troppo avventuriero, troppo fuori dagli schemi, troppo imprevedibile, perché noi oggi si possa fare un'operazione del genere... A me Welles ricorda Raffaello. Raffaello che cammina per le strade di Roma nel Cinquecento e che a ogni passo si deve fermare perché la gente gli bacia le mani, le vesti.[27]
  • Padre Arpa dirigeva il "Colombianum", un istituto gesuitico molto importante in città, a piazza de' Ferraris. Per finanziare me, non pagò lo stipendio di cinque, sei mesi agli impiegati. Lo appresi in seguito perché scoppiò un gran casino sui giornali. Padre Arpa ebbe fede. Istantanea. Miracoli che accadono. Gli feci vedere le recensioni di Roma, ma non ce n'era bisogno. "Mi basta vedere lei, il cielo la benedica". Era un grande conoscitore di teologia, Padre Arpa. Con lui si conversava di Giansenio e Port-Royal. Era una specie di Loyola. Uno fattivo.[28]
  • Per capire un poeta, un artista – a meno che questo non sia soltanto un attore – ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista.[29]
  • Popolarissimo in Francia, Giuseppe da Copertino è patrono degli studenti che, prima degli esami, pregano frate Asino.[30]
  • Quasi sempre, si mangiava in scena. Un tavolo, la bombola a gas e il solito Nistri che cucinava in tight nero-Porta Portese. Con lui, apprendisti stregoni giovanissimi e altri guitti più âgés, che avevo prelevato in Borgo santo Spirito dalla compagnia del cavalier Palmi; incluso Alfiero Vincenti, che poi sarebbe stato un memorabile Re in un mio Amleto degli anni '70. Lo stesso Manlio Nistri usciva dal quel prodigioso vivaio.[31]
  • Semprelei: Non credo un niente! Tu non vuoi morire. Hai paura. Hai paura della moda! Son così indaffarata che non ho saputo odiarti come tu volevi. Poveraccio! Ed è tutto, poveraccio! Provane un'altra! Cosa non vuoi da me!...
    Luisolo: Lo sai, Maria, non scrivo più da tanto ...
    Semprelei: Poveraccio, non basta ... per non pensare a niente! Non basta: Guarda me. M'hai scritta tu. Se ti sono sfuggita dalla penna, perché non credermi? Perché ostinarti a rileggere questo errore più grande di te? Straccia il tuo compito da sufficienza in mille pezzi, in mille compitini senza senso ... Credimi e sarò un'altra che non c'è. Mi penserai tra gli angeli, tra gli infiniti azzurri modi di dire che non pensiamo a niente![32]
  • Sono il servo dell'insolito, | condannato all'erezione | complicata d'un padrone | libertino, si vedrà... | ino ino ino ino... || Complicato è il mio padrone | nell'orgasmo (nell'orgasmo) si vedrà!...[33]
  • Un fatto ignobile. Uno dei tanti petali di questo fiore marcito che è l'Italia. Fu condannato a undici anni Braibanti, di cui quasi dieci scontati nella peggiore galera, per un tirato mai reato in ballo fino ad allora. Il plagio. Per giunta ai danni di un maggiorenne...[34]
  • [Sulla Compagnia D'Origlia-Palmi] Stiamo parlando di clamoroso teatro. Stupore pieno. Giudizio, il mio, condiviso da Arbasino che, in Grazie per le magnifiche rose, li associa a me come il massimo esempio del teatro italiano del secondo Novecento. Era una costellazione sublime di amnesie, di vuoti di scene, d'identità smarrite e scambiate come patacche in un mercato dell'arteriosclerosi.[35]
  • [Su Alfiero Vincenti] Una geniale carogna. S'infilava nei miei letti. Gli piaceva giocare con i corpi di donna. A cinquant'anni era già impotente.[36]
  • [Su Aldo Braibanti] "Vieni a trovarmi a Fiorenzuola D'Adda", mi aveva detto quella volta a Milano. Abitava in una torre molto bella. Aveva un formicaio che curava maniacalmente. Sapeva tutto delle formiche e di molte altre cose. Passai da lui dopo la vacanza veneta. Una settimana insieme a un altro pazzo, il suo editore, progettando spettacoli su palloni aerostatici a Portofino, sopra le teste dei miliardari in vacanza. Dormivo in camera sua, su questi letti Ottocento in radica.[37]
  • [In risposta alla domanda di Vittorio Gassman] L'anacoluto è un settenario doppio zoppicante.[38]
Da Carmelo Bene Il principe cestinato, mediometraggio del 1976 di Carlo Rafele
  • Io posso continuare a vivere questa mia vita... perché ho una dote che nessuno ha... così in me esasperata, così in me eccellente. Questa dote è la mia grande falsità.
  • Quando i gazzettieri scrivono "Shakespeare oltraggiato", "Wilde tradito" – a parte che il tradimento è la cosa più nobile che si possa fare, soprattutto in teatro – ...bisognerebbe vedere, bisognerebbe sempre chiedere di quale Shakespeare parlano. C'è lo Shakespeare dei romantici. Se questi signori hanno avuto il merito nell'ottocento (gli italiani, i tedeschi, inglesi) di riscoprire il teatro elisabettiano (Marlowe, quindi Shakespeare soprattutto) però l'hanno anche intabarrato in questi loro mantellacci shilleriani, coi quali i personaggi, le situazioni, il mondo di Shakespeare, il teatro elisabettiano non ha niente a che spartire...
  • [In merito al rapporto con l'arte e con i testi] Io parlerei sempre di riscritture, ...tanto per chiarire. Perché poi anche questo Amleto finisce per essere un classico, ma non perché ispirato a un classico, oppure perché parodia di un classico. Io direi sempre che si tratta di riscritture su più piani e più livelli.
  • [In merito alla riscrittura dei testi e alla "attività critica" della loro riscrittura.] Come Laforgue, ch'è parte in causa – diciamo che è un co-sceneggiatore – a livello di copione, insieme a Bibi Shakespeare e a me (alludo quindi al suo saggio meraviglioso "Hamlet, ou les suites de la pitié filiale" dell'ottocento). Anch'io credo di aver fatto un saggio sull'Amleto. Nell'Amleto credo di aver guadagnato... forse un risultato, nuovo anche un po' per me: [quello] non solo di aver fatto una riscrittura di scena, ma attraverso la scena [di averlo fatto ritornare] appunto alla pagina.
  • Indubbiamente Amleto, quest'Amleto, è una partitura musicale, rigorosissima, cioè la parola non è mai utilizzata per esprimere il "concetto di" che poi a sua volta starebbe "a significare che..." [Altrimenti si otterrebbe] artisticamente quello che sarebbe squallida prosa, se invece traducessi soltanto il concetto.
  • [In merito al togliere o al levare di scena] Il discorso è doppio. C'è prima il discorso dei registri, a mio avviso, sui volumi, sui toni, sui vuoti (più importanti delle pause). Sono i vuoti che danno il sintomo di questa gestione diciamo in levare... E poi sconfessano assolutamente il personaggio, e più che il personaggio la situazione stessa; e più che la situazione, l'Io. Entriamo in un discorso della morte dell'Io.
  • Diciamo che [la riscrittura scenica] è la cancellazione un po' di tutto, se vogliamo. D'altra parte poi c'è anche rappresentato (per chi esiga un messaggio tout court) il rapporto re-Amleto-Orazio, questa coscienza, questo dilemma, la crisi stessa è lacerata in bigliettini... Orazio disapprova e cestina, ma che Amleto ha già cestinato affidandoli a Orazio [...] Orazio è proprio questo cestino della coscienza. L'"essere o non essere" è cestinato di brutto [...] Da questo stesso cestino vengono invece ripescate delle altre cose... che vengono invece elette a trovarobato, a scena. È un teatro, appunto, che diventa oggettivo, dov'è il famoso "cogito ergo est".
  • Come qualcuno ha detto giustamente: "non è vero che la forma sia il contenuto", ma la forma è l'urgenza che viene prima del contenuto.
Carmelo Bene definisce cos'è la macchina attoriale[39]
  • Il teatro, il grande teatro è un non-luogo soprattutto, quindi è al riparo da qualsivoglia storia. È intestimoniabile. Cioè, lo spettatore per quanto Martire, testimone, nell'etimo (da marthyr), per quanti sforzi possa compiere lo spettatore, dovrebbe non poter mai raccontare ciò che ha udito, ciò di cui è stato posseduto nel suo abbandono a teatro. Ecco che l'attore non basta più, il grande attore nemmeno. Bisogna essere una macchina, eh..., come io (tra parentesi) l'ho definita, attoriale. Che cos'è una macchina attoriale?... Comunque deve essere amplificata... L'amplificazione è un strana cosa... L'amplificazione non è assolutamente [...] un ingrandimento, ma è come guardare questa pagina... Se io la guardo in questo modo, ecco, così, ecco... io vedo e così sento; ma se io avvicino questo [foglio], più l'avvicino, più i contorni svaniscono. I contorni svaniscono e non vedo più un bel niente.
  • Cos'è la macchina attoriale?... È la lettura, intanto, come nella poesia, nella concertistica,...
  • Il teatro è nell'atto, cioè nell'immediato, in quello che un filosofo chiamò l'immediato svanire, la presenza e al tempo stesso, assenza. Questo è il superamento del grande attore. Cioè della macchina attoriale, di cui, ripeto, questo di Macbeth Orror Suite è soltanto una esemplificazione, tra le altre.
  • Se io leggo, anche in concerto, ho bisogno di leggere, non per ricordare o nella presunzione che lo scritto corrisponda all'orale. No, v'è invece una profonda idiosincrasia tra scritto e orale... Lo faccio per dimenticare. La lettura come oblio. La lettura paradossalmente come non-ricordo.
  • Lo spettatore deve solo abbandonarsi all'ascolto. Ma anche, non solo l'orecchio è ascolto, ma l'occhio è ascolto.
  • Bisogna complicarsi la vita, come diceva Eduardo. Ecco. Complicarsi la vita vuol dire crearsi una serie di handicap... Questa è la preparazione, al di là, a dispetto del testo. Non ci sono testi. A dispetto dell'umanesimo, del museo, dell'arte, sempre consolatoria, sempre decorativa. A dispetto della cultura... che, ha ragione Derrida, [...] nell'etimo ... deriva da colo, colonizzare... Quindi non c'è niente... a dispetto dell'intelligenza bisogna essere stupidi, infinitamente stupidi, per essere nell'abbandono.
Sulla "scrittura di scena", Carmelo Bene a Mixer Cultura, 1988
  • Credo di continuare un discorso laddove anche Antonin Artaud fallì. Io ho ripreso il discorso di Artaud, cioè quello della scrittura di scena, contro il testo; un testo, un teatro di testo, diceva Antonin Artaud, è un teatro di invertiti, di droghieri, di imbecilli, di finocchi; in una parola di Occidentali. [...] Dopo secoli, quattro secoli (già però ventilata in Shakespeare ed in tutto il teatro elisabettiano) [...] ecco finalmente la scrittura di scena. Una volta il testo veniva, viene tuttora, ahimè, in Occidente riferito; si impara a memoria; cioè è un teatro del detto, del già detto, ... e non del dire, che sconfessa il detto e si sconfessa anche in quanto dire. Si tende delle trappole il dire al dire stesso. Non è mai un dire del medesimo, comunque. Quindi la scrittura di scena è tutto quanto non è il testo a monte, è il testo sulla scena. Quindi, il testo ha la medesima importanza che può avere il parco lampade, la musica, un pezzo di legno, di cantinella qualunque, un barattolo. Questo è il testo nella scrittura di scena. Chiaramente affidata alla superbia dell'attore, dell'attore in quanto soggetto, non più dell'attore in quanto Io, cioè in quanto immedesimazione in un ruolo.
  • [Il conduttore Bagnasco fa entrare alcuni critici, che dovranno partecipare alla discussione...] Ahimè, partecipano anche troppo, non a questo incontro, ma soprattutto non partecipano a una mia sollecitazione perenne, laddove io mi sforzo di togliere, come artefice, il logos, cioè di togliere il senso sulla scena allo spettacolo, per recuperare un controsenso, dove da capire non ci deve essere nulla perché il teatro, in nome di Dio, ha da esser gioco e non pensamento, pensosità, quindi... cosa fa la mediazione critica? [...] Io li ho da sempre compresi... i signori critici ... È un mestiere veramente umiliante. [...] Il critico, diceva Léon Bloy, è «colui che ostinatamente cerca un letto in un domicilio altrui». [...] Ecco, c'è questo dissesto. Io sento il loro disagio. [...] [i critici non devono] occuparsi del mio teatro, della situazione di scena, già così difficile, dove da capire non c'è nulla, grazie a Dio, ed è depensata come l'italiana in Algeri. Io sono l'italiana in Algeri. [...] Ecco. Per depensare bisogna aver pensato. Cosa fa la critica? Riconduce tutto a un senso, a una visione di senso assai personale, cioè truccata da oggettività. Mentre, qualunque critica dovrebbe essere di tendenza, cioè, prima si qualifichi il critico. Non si dà critico, diceva Oscar Wilde, fuori dall'artista.
  • Ho detto, quando si parla di teatro del depensamento, cioè della sintesi lirica, [...] ma che presuppone tutta una filosofia a monte, e quindi, uno studio sul linguaggio, non sulla lingua [...] Ecco, allora i miei ventott'anni di scrittura di scena, documentatissimi, non devono poi tanto allarmare ...
  • La scrittura di scena [...] è altra cosa dal teatro di regia, è altra cosa dal teatro ripetitivo del testo a monte, cioè del detto. Quindi il detto e il dire. Una volta messo a monte, si capirà che la critica, qualunque intervento è posticcio, è un'appendice, è un'aggiunta.
  • Col teatro non si scherza, in quanto lo scherzo è adulto e il gioco è infantile. Quindi un teatro del soggetto, dell'onnipotenza bambina del soggetto... gioca... I bambini non scherzano, giocano...
  • Io dico che nessuno è più qualificato, nessuno ha più studiato di me, Laforgue, in questo caso, ecco, l'ho studiato da più di vent'anni. Perché un critico non può, vedendo diecimila spettacoli, approfondire vent'anni, un autore per vent'anni. Non è possibile. [...] Non ammetto, quindi, questa spocchia del critico, il letterato che deve saperla più lunga del grandissimo attore. Il grandissimo attore la sa più lunga di lui, se no non sarebbe tale. Un attore incolto oggi non ha senso, non può occuparsi di scrittura di scena, non può fare la strada che io ho percorso, non può batterla. Non può essere il più grande attore d'Europa, come mi si dice, sulla scrittura di scena, se non è più colto dell'ultimo critico in sala.
Un dio assente. Monologo a due voci sul teatro
  • Non dico l'incompatibilità ma addirittura l'idiosincrasia dei due termini teatro e spettacolo. Dove c'è spettacolo non c'è teatro. Il teatro può dare osceno, proprio nell'etimo, porno nel senso proprio greco. (p. 33)
  • C'è un'operazione, ancora non più profonda ma a mio avviso più leggera, più spensierata, più depensata: si tratta di finirla col virtuosismo e quindi con la volontà. Bisogna avercelo avuto, magari, sì, d'accordo. Si è nati... E con la tecnica inoltre finirla. E allora che cosa introduco, io, in tutto questo? Ciò che chiamo contro-tecnica. (p. 53)
  • A Lacan interessava aver articolato l'inconscio come linguaggio. Io parto articolando il linguaggio come un inconscio, ma affidandolo ai significanti e non ai significati, in balia dei significanti... (p. 97)
  • È proprio per essere nell'oblio, che bisogna leggere! Perché se questo occupa anche un dieci per cento della memoria, della memoria d'attore, il gioco è finito. (p. 87)
  • Se qualcuno ha potuto definire la phonè una dialettica del pensiero, nego di aver qualcosa a che fare con la phonè. Io cerco il vuoto, che è la fine di ogni arte, di ogni storia, di ogni mondo. (pp. 131-132)
  • Non si tratta solo di uscire dalla frastica: bisogna paralizzare l'azione, giungendo a quel che mi piace definire "l'atto. Mentre l'azione è qualcosa di storico, legato al progetto, l'atto è oblio: per agire, occorre dimenticare, altrimenti non si può agire. In questo una parola come attore va decisamente riformulata. Mentre con attore s'intende per solito colui che fa avanzare l'azione, porgendo la voce al personaggio, io mi muovo in senso contrario. Vado verso l'atto, e cioè l'instaurazione del vuoto. Questo è il senso della sovranità o super-umanità attoriale. Ma per far questo si deve decostruire il linguaggio, spostando l'accento dai significati ai significanti che, come dice Lacan, sono stupidi, sono il sorriso dell'angelo. Occorre arrivare all'inconscio, a quanto non si sa, all'oblio di sé. (p. 124)
Uno contro tutti, in Maurizio Costanzo Show, 28 giugno 1994
  • La libertà di stampa mi sta bene se è libertà dalla stampa.
  • Non sono mai nato, non mi vergogno di essere nell'equivoco italiota, non mi interessano gli italiani. Qualunque governo come qualunque arte (o tutta l'arte borghese), tutta l'arte è rappresentazione di Stato, è statale. È uno stato che si assiste fin troppo, se no alla mediocrità chi ci pensa? La mediocrità, par excellence, è proprio lo Stato. Lo Stato dovrebbe smetterla di governare, ecco. Si può dare uno Stato senza governo, mi spiego? Non deve amministrare, deve lasciarlo fare a dei privati.
  • Detesto anche la nazionale azzurra, però lo dico. Non me ne fotte nulla del Rwanda, però lo dico. Voi no, non ve ne fotte, ma non lo dite! Non sono eroico; me ne infischio di me stesso, del governo, della politica, del teatro...
  • Qui c'è troppa puzza di Dio.
  • Parli con Heidegger e vada a fare in culo.
  • Tieniti la tua coerenza, vecchio! Sono incoerente, come l'aere, più dell'aere!

 Trascrizione approssimativa, verificare rilevanza ecc., vedi discussione Trascrizione approssimativa, verificare rilevanza ecc., vedi discussione

  • Carmelo Rocca è stato il direttore di questo defunto, fantasmatico, allucinatorio Ministero[40] che sopravvive come l'araba [fenice] alla sua demolizione plebiscitaria: è stato abrogato dagli Italiani.
  • Non risolveranno mai niente con la democrazia. "Democrazia" nel senso di Hobbes, che la chiamava "demagogia". Fu il primo a chiamarla col termine giusto. [...] L'unica forma di governo che garantisca qualcosa cos'è? La democrazia senz'altro, è la più accettabile paradossalmente (se ne occupa Cioran molto bene). Ma vi domando io: cosa garantisce la democrazia che una dittatura non possa garantire? Certo, garantisce qualcosa: l'invivibilità della vita. Non risolve la vita. Chi sceglie la democrazia, chi sceglie la libertà, sceglie il deserto. Se la democrazia fosse mai libertà. Ma la democrazia non è niente; è mera demagogia. Ma qualora noi meritassimo una libertà, dovrebbe essere affrancamento dal lavoro e non occupazione sul lavoro. Anche se non si scappa mai – questo è il discorso di Deleuze sulla letteratura minore, su Kafka – dalla catena di montaggio; non si sfugge mai. [...] L'oppressione della catena di montaggio si fa sentire anche in famiglia, [...] financo nell'amore, nella rivoluzione ancora di più e soprattutto [...] nell'entusiasmo.
  • L'atto è l'oblio dell'azione nello smemoramento di sé.
  • La felicità è nel differirla, non nell'averla. Nell'averla c'è la noia di averla avuta.
  • [Gli viene chiesto se è vero o no che, come riportato dalla stampa, ha percosso la sua ex moglie quando era incinta. Risponde:] No, io non ho mai picchiato nessuno... ma mi sarebbe piaciuto!
  • Ma non caschiamo nel solito sociale, nel mondano, nei dolori privati, pubblici; parleremo di assistenzialismo, magari...
  • Carmelo Rocca, appunto, è il direttore generale dello spettacolo del Ministero del Turismo[40] mancato, poi soppresso dagli Italiani, smaniosi sempre di dare il loro contributo all'urna elettorale (di pianto).
  • Rocca disse una volta davanti a Franco Ruggeri: – "Ma senti, di Carmelo Bene ce ne sta uno solo, chiaramente; gli altri sono tanti." – "Ma sono mediocri." – "D'altra parte" dice "di te ce n'è uno solo ma se non ci pensiamo noi (noi Ministero[40], noi spettacolo del governo), se non ci pensiamo noi, alla mediocrità chi ci pensa? Vi direi: "Meditate"; ma siccome appartiene alla bagarre della polemica del sociale, del mondano, allora: "Non ci pensate più. Dimenticate. Non ho detto niente".
  • Io mi occupo (e – purtroppo o per fortuna – si occupano di me) solo dei significanti, i significati li lascio ai significati. [...] Noi siamo nel linguaggio e il linguaggio crea dei guasti; anzi è fatto solo di buchi neri, di guasti. "Codesto solo – dice l'Eusebio nazionale, cioè Eugenio Montale, però traducendo pari pari Nietzsche – oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". E questo si può dire. Chi dice d'esserci è coglione due volte: primo perché si ritiene Io, secondo perché è convinto di dire; è coglione una terza volta perché è convinto di dire quel che pensa, perché crede che quel che pensa non sian significanti, ma sian significati, e che dipendano da lui, ma Lacan ha insegnato: "il significato è un sasso in bocca al significante". Qualcuno ha qualcosa da obiettare a questa definizione? La obietti con i lacaniani, la obietti con Lacan, la obietti con l'intelligenza, certamente! Ma per me l'intelligenza è miseria.
  • È ora di cominciare a capire, a prendere confidenza con le parole. Non dico con la Parola, non col Verbo, ma con le parole; invece il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete. Voi sputate su Einstein, voi sputate sul miglior Freud, sull'aldilà dei principi di piacere; voi impugnate e applaudite l'ovvio, ne avete fatto una minchia di questo ovvio, in cambio della vostra, e del vostro godemichet, cui siete dannati. Ma io non vi sfido: non vi vedo!
  • Non voglio essere interrotto da chi mi rompe i coglioni con l'essere e con l'esserci, non voglio parlare con l'ontologia; abbasso l'ontologia, me ne strafotto: parli col Professor Heidegger, non con me!
  • [Su un certo "sentimento anti-italiano" che sarebbe "l'ultimo snobismo di massa", C.B. risponde così:] Non mi vergogno d'essere nell'equivoco italiota. Non mi interessano gli Italiani, ecco. Qualunque governo, come qualunque arte, è borghese: tutta l'arte è rappresentazione di Stato, è statale. È uno Stato che si assiste fin troppo. "Se no alla mediocrità chi ci pensa?". La mediocrità, par excellence, è proprio lo Stato. Lo Stato dovrebbe smetterla di governare: si può dare uno Stato senza governo, mi spiego? [...] Me ne infischio del governo, della politica, del teatro soprattutto[...] Me ne frego di Carmelo Bene, io. Voi no, ma io sì.
  • Lo Stato italiano – nelle figure di Franz De Biase, oppure di Carmelo Rocca, oppure della Presidenza del Consiglio dei Ministri – si è sempre abusivamente, incompatibilmente, eccessivamente occupato (si è stra-occupato) del qui presente-assente, di me. Ne ha proprio abusato; non ne posso più di questa haute surveillance. Lo dico da quand'ero ragazzo. Io ho chiesto sempre allo Stato (nei libri, per iscritto, nelle carte da bollo, fuori delle carte da bollo): "Per favore, voglio essere trascurato"; sono "un poeta" da ragazzo, poi sono andato di là dal poeta, ero "un artista", poi l'arte l'ho riconosciuta borghese e ho visto che l'arte era Carmelo Rocca (infatti lui è "il Grande Ufficiale delle Arti e delle Lettere")
  • Troppa attenzione: con Eduardo [De Filippo], con Dario Fo ma tanti anni fa (già quando io ero pressoché ventenne) abbiamo cominciato una battaglia invocando la chiusura del Ministero del Turismo e dello Spettacolo[40], proprio l'oblio dello Stato, oblio di me. L'abbiamo rimproverato di non trascurarci abbastanza. L'artista, soprattutto il genio, vuole essere trascurato. Fa di tutto per trascurar se stesso! Già è sfuggito alle apprensioni di sua madre (che non l'ha lasciato suicidare in una pozzanghera, che l'ha sempre trattenuto e fermato), alla fine viene un ministro – proprio poliziotto – che ti si attacca e non smette più. Dico che la mediocrità dei ministri deve campare, deve sopravvivere anche quella (se no, a quella mediocrità dello Stato, alla mediocrità di Stato, "chi ci pensa?"). Lo Stato si occupa della mediocrità della democrazia (cioè a 65 milioni di Italiani), 65 milioni di Italiani (da imbecilli, cioè Italiani) votano questo Stato, che è il loro stato di cose, quello che è stato è Stato e quindi non è stato mai. E i fatti non sono se non nella stampa (nelle sue falsificazioni e omissioni)... [Citando Derrida:] "La stampa informa i fatti non sui fatti."
  • Non sono boutade, è vero. Non fingo di interessarmi ai problemi della patria, all'Europa. A fare, come dice Derrida, questa "rimpatriata" (che poi Mitterrand deve ancora spiegare a Jacques Derrida cosa vuol dire "essere a casa", "sentire odore di casa" entrando in Europa). Cos'è l'Europa? Di quale colonizzazione si tratta? Di colonizzare noi stessi? Altri? I popoli? Me ne fotto dei popoli, non mi interessa. Tutto quello che sconfina dal sangue e lo sperma, e sconfina oltre, aldilà degli orizzonti adolescenti tramontati... ma mi interessava una volta, adesso nemmeno quello.
  • Io ignoro. Io sono la mia s'ignora. Sono s'ignorante, sono un Signore.
  • Diceva Flaiano, a scuola "Sempre caro mi fu quest'ermo colle" diventa "Questa collina mi è sempre piaciuta"! Istruzione "obbligatoria"? Ma che siamo in Siberia? Ma perché bisogna istruirsi? Su che cosa? E poi chi deve istruirmi? Lo Stato? E chi è lo Stato? Ma chi l'ha votato questo Stato? Chi l'ha eletto? Come dice Deleuze, c'è un potere del teatro che è peggiore del potere dello Stato.
  • Non sono dalla parte del potere, non ho poteri. Io sono incoerente come l'aere, più dell'aere.
  • Bisogna fare di sé dei capolavori.
  • Nietzsche è impazzito, ma se l'è meritato. Qui invece di pazzi ne abbiamo fin troppi che non se lo sono sudato, non se lo sono guadagnato. Questo è il discorso. E sono squallidi, mediocri. Come i nostri governanti, i vostri governanti.
  • In teologia si danno solo domande, non risposte. [...] Lei non può parlare di Dio con Dio.
  • Fare un forno, in teatro, vuol dire che non c'è nessuno. Quando facevo gli esauriti (quando ero esaurito io), dicevo: "Stasera è un bel forno!" Perché c'era la gente anche in piedi. Da soli è una ressa (come diceva Alberto Savino, "Due uomini fanno appena, oggi, una rissa" di questi tempi ormai in-drammatici e non più tragici). Io ho tanto disappreso. Non vi auguro di disapprendere tanto. Io applico quella agape schopenhaueriana – cioè quella compassione che non è cristiana, diciamo è più stoica, anzi è più gnostica, ecco – nei confronti della maggior parte di voi, meschini.
  • [Gli viene sottoposta da un giornalista una sua frase in merito a Totò Riina e Poggiolini. Bene risponde con amarezza:] In questa acquiescenza, in questo nullismo, in questo bagno di omologazione di Stato – purché si accetti aldilà del bene e del male, aldilà della coscienza applicata, aldilà della demagogia democratica, aldilà della democrazia in tutti i sensi deprimente e depressa, aldilà di nostalgie imbecilli di tiranni, ecc. – io trovo davvero che Poggiolini e Riina abbiano un magnete, un carisma (o càrisma che dir si voglia) che non hanno tanti condomini della nazione italiana. L'Italia è un condominio di piattume, di piattole rompicoglioni, insensate e squallide. Insignificanti. Non mi interessa il simbolico come linguaggio artistico, non mi interessa la poesia, il poetico, non mi interessa l'anima bella, non mi interessa nemmeno il quotidiano come linguaggio; mi interessa quale linguaggio? Il secondo: mi interessa il patologico. Riina e Poggiolini sono due sommi casi patologici. E in un'epoca che non produce più niente di umano, essi sono forse i due soli uomini degni della mia attenzione. Patologica attenzione, del mio studio clinico, del mio tributo. Tutto qui.
  • [In un interessante - tra gli altri - passaggio, assimila profondamente e precisamente l'osceno al porno, dicendo che] nell'etimo, os-schené [è] "fuori scena", il porno come eccesso, l'au-delà del desiderio, nevvero? [...] Il porno si instaura alla morte del desiderio. Morto, sacrificato l'Eros, l'aldilà del desiderio, quando tu fai qualcosa aldilà della voglia, la voglia della voglia: questo è il porno. È una svogliatezza. Il più grande pornomane, pornografo, è Franz Kafka, non è Sade. [...] Io mi considero nel porno. Il porno è il manque, l'altrove, il quanto non è, il quanto ha superato se stesso, è quanto non ha voglia, è quanto non "gli tira" (pur tirando, non tira – è stirato, per sempre).
  • Una volta tanto, in questa trasmissione, si sta parlando davvero di cazzate, finalmente. Era l'ora di riconoscere che si parla sempre di cazzate! Questa sera stiamo dicendo che non stasera son cazzate, ma che sempre si parla soltanto di parole, cioè di cazzate. Senza che si offenda il fallo.
Da un'intervista rilasciata a Il Giorno, 2 marzo 1996; citato in Paolo Pagani, Al di là del Bene e del calcio. In ricordo di un Maestro, Sport.Sky.it, 16 marzo 2012
  • Io non ragiono con l'ottica del tifoso. Il tifoso è chi conta i punti. Io mi emoziono. Io cerco l'Emozione nell'Atto [...]. Che è il contrario dell'Azione. L'Atto è Joyce, è Weah, è un servizio di Edberg.
  • [...] il Milan è un fatto culturale, un fenomeno estetico. Il Milan eccede la Materia. È celeste... L'eccedenza soltanto è il Grande Spettacolo, eccedenza è il rendersi invisibile sul ring di Sugar Ray Leonard contro Roberto Duran... L'eccedenza è il giuoco senza palla: il giuocatore senza palla è un uomo senza Mondo! Capisce? È l'al-di-là della routine, il di-là-da...
  • Lo sport ai suoi grandi livelli è labilità, ma senza apostrofo. Immaterialità! Eccedenza pura! Il calcio somiglia alla musica: la musica può forse essere spiegata con la musica? No, così il calcio: non ha nemmen bisogno della Lingua per farsi intendere. Il calcio buca ogni linguaggio. Il gazzettismo sportivo? Orrore! Uscitene, voialtri gazzettieri! Certo linguaggio è cosa funesta! È come la critica teatrale, pisciatina tiepida. È moviolismo! È il tirar a campare a spese delle altrui gambe!
  • Weah? Lui è shakespeariano. L'Atto Puro. L'Immediato. Lui è pre-veggente, uno che vede prima. Weah vuol dire Giuoco, nel senso di simbolo del mondo. È il Bambino, la trasgressione che il pubblico non s'aspetta, l'accadimento imprevisto.
Fatemi il funerale da vivo, l'Espresso, 13 gennaio 2000
  • Ci sono cose che devono restare inedite per le masse anche se editate. Pound o Kafka diffusi su Internet non diventano più accessibili, al contrario. Quando l'arte era ancora un fenomeno estetico, la sua destinazione era per i privati. Un Velazquez, solo un principe poteva ammirarlo. Da quando è per le plebi, l'arte è diventata decorativa, consolatoria. L'abuso d'informazione dilata l'ignoranza con l'illusione di azzerarla. Del resto anche il facile accesso alla carne ha degradato il sesso.
  • Con Benigni siamo amici da anni. Lui è grande nel "buffo", ma lasciamo stare il "comico". I buffi sono concilianti, rallegrano la corte e le masse. Il comico che interessa a me è un'altra cosa. Cattiveria pura. Il ghigno del cadavere. Il comico è spesso involontario. Specialmente quando si sposa con il sublime.
  • È tutta la vita che tolgo di scena il burattino, l'incubo di un pezzo di legno che ci si ostina a voler farcire con carne marcia. Precipitare nell'umano – che parola schifosa – questa è la disavventura. Gli anatomisti gridano al miracolo quando parlano del corpo umano. Ma quale miracolo?! Un'accozzaglia orrenda, inutilmente complicata, piena di imperfezioni e di cose che si guastano.
  • Il corpo implora il ritorno all'inorganico. Nel frattempo non si nega nulla.
  • In quanto al mio amico Vittorio Gassman, gli dissi una volta scherzando: "Non puoi accontentarti di essere il meglio del peggio, cioè il pessimo".
  • Io sono già dimenticato, meglio ancora ignorato, in vita. Mi hanno promesso a Otranto i funerali da vivo. Non c'è bisogno di consegnare un cadavere in pubblico per meritare la dimenticanza.
  • La voce dell'opera si è fermata con la Callas, una perfezionista, nel senso che perfezionava i suoi difetti, come tutti i geni. Trovare e cestinare. Di questo si tratta.
  • Me ne fotto di quel che mi riguarda. Malati gravi si è per definizione.
  • Nelle aristocrazie il principe non si fa eleggere, è lui che elegge il suo popolo. In democrazia il popolo è bastonato su mandato del popolo. È la pratica certosina dell'autoinganno. Si dice che il trenta per cento sia astensionismo. Nego, tutto è astensionismo. Sono comunque voti sprecati.

Quattro momenti su tutto il nulla

[modifica]
  • Negli spettacoli s-concerti ho di-scritto la voce dell'inorganico, dell'inanimato, dell'amorfo, del non resuscitato alla smorfia dell'arte. Lasciandomi possedere dal linguaggio e non disponendone siccome dato in quasi tutta l'espressiva cartolina del novecento poetico nostrano. Da dove ho cominciato a farla finita una volta per tutte con il discorso. Nessun problema finalmente, un incipit e di per se la fine.
  • Siamo, quel che ci manca. Da per sempre.
  • È strarisaputo che il discorso non appartiene all'essere parlante.
  • Quando crediamo d'esser noi a dire, siamo detti. Nel discorso, l'arroganza volitiva d'ogni mia intenzione è irrimediabilmente frustrata e, dal momento che non siamo noi dicenti ad argomentare in voce ciò che ci frulla in mente, così come non sei puoi dire nulla. Questa mia voce è me attraverso medium equivoco di un discorso "altro" dal presupposto virgolettato "mio discorso". Il dire è la messa in voce, altra da questo o quel pensiero argomentato. Voce che perciò dice nulla.
  • Si può solo dire nulla: destinazione e destino d'ogni discorso. Ma solo questo nulla è proprio quel che si dice. La verità del discorso intesa come esperienza stessa del suo errore. Altro non resta che, in tutto abbandono, lasciarsi comprendere dal discorso senza appunto la nostra volontà di intenzione. "Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". È Nietzsche mutuato in un distico da Montale.
  • Mi sono ripetuto dimostrandolo mille e più volte che il termine attore ha il suo etimo nell'"àgere retorico" e nemmeno per sogno nel verbo agire. E nonostante la solarità della mia lezione questi frenetici spazzini del proscenio seguitano a naufragare. Dove?... nell'identità, scorreggiona del teatrino occidentale. Patronale. Del testo a monte, prosternati davanti alla morale del senso, alla strisciante, servilissima, venerazione dei ruoli; all'insensatezza psicologica, alla verità verbale coniugata alla più insulsa, stucchevole frenesia del "moto a luogo". Alla rappresentazione insomma dei codici di stato. Come se a tanta indecenza non provvedesse la virtualità della vita tout court.
  • La mia frequentazione cinematografica è ossessionata dalla necessità continua di frantumare, maltrattare il visivo, fino talvolta a bruciare e calpestare la pellicola. M'è riuscito filmare una musicalità delle immagini che non si vedono, per di più seviziate da un montaggio frenetico.
  • Sgombriamo il campo da qualsivoglia impossibile comunicativa destinazione. Abortita ogni smania insulsa del proferire ad essere compreso.
  • Groddreck precisa essere la copula un surrogato della masturbazione e non viceversa.
  • Accidenti ai quattrini!... Accidenti alla cartaccia moneta!... Questa orrenda matrigna dell'arte, di tutte le arti. Mestiere infame questo dell'artista. Da sempre nell'eterno quotidiano della vita invivibile, indissolubilmente coniugato alla piccolo borghese fatalità del miserabile. Coniugato a tal punto che quest'ultimo poveraccio spregevole termine potrebbe benissimo sostituire l'altro, cioè quello dell'artista, in un più intransigente rigoroso dizionario. A un individuo abbiente è rispettabile, non verrebbe mai in testa di vivacchiare con ciò che è detto: arte. Arte: il più astruso e stupido tra gli espedienti.
  • L'autorialità è un doppio falso, nell'idea che la origina e nell'artificio che quell'idea stravolge, realizzandola.
  • Un altro impulso alla minacciosa professione estetica è senza dubbio costituito dall'ansia individuale d'esprimersi, cioè manifestarsi attraverso la produzione di materiali eterogenei, infiocchettati... quando si crede basti a suscitare l'emozione spettatoriale, simultanea al configurarsi dell'oggetto bello e all'attenzione della stima critica.

Vita di Carmelo Bene

[modifica]
  • Andiamoci piano con questa storia che un bel giorno si nasce. Non è così scontato. In quegli anni [Anni '30] venire al mondo e farla franca era come scampare ad Auschwitz. La gestante era una signora a rischio, destinata quasi sempre a perire. Lei o il bambino. Qualche volta entrambi. (p. 7)
  • Aldo Moro era di Maglie, il paese di mia madre. Giocavano insieme da bambini. Mia madre, sua sorella Raffaella e Aldo, l'unico politico decente che ha avuto forse questo Paese. (1998; p. 14)
  • [La poesia è] Distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, e soprattutto, urgenza, vita, sofferenza. È l'abisso che scinde orale e scritto.
  • È la folla come fallo, è l'errore di massa. Non l'erranza. È finita quell'erranza, il nomadismo, il pensiero. Dove c'è qualità si muore. Si tocca il filo rosso. Crepi. È cortocircuito.
  • Giuliana. Quella con cui mi sposai, anzi "divorziai" la prima volta. Di sei anni più âgée di me [...] Ci provava a fare l'attrice, senza crederci un granché. Era troppo intelligente Giuliana. (p. 102)
  • Gli impiegati andrebbero murati in casa. La domenica. Murare le finestre. Magari non in cemento, con dei mattoni forati. Quando vanno al lavoro possono sbizzarrirsi. Inalare qualche boccata di smog. Altro che verdi. Ecologicamente, la presa d'aria deve essere letale.
  • I giornalisti sono impermeabili a tutto. Arrivano sul cadavere caldo, sulla partita, a teatro, sul villaggio terremotato e hanno già il pezzo incorporato. Il mondo frana sotto i loro piedi, s'inabissa davanti ai loro taccuini e tutto quanto per loro è intercambiabile letame da tradurre in un preconfezionato compulsare di cazzate sulla tastiera. Cinici? No frigidi. (p. 76)
  • Il fatto di essere nati [Negli anni '30] costituiva di per sé un'impresa. Sopravvivere ai tumulti dell'utero, a questo natale bellico, allora funesto nel novanta per cento dei casi. Più che nato, sono stato abortito. Ecco, io mi considero a tutti gli effetti un aborto vivente. (p. 7)
  • [Parlando di Marcello Barlocco] Interessante scrittore. Alto un metro e novanta, pesava trenta chili. Faceva impressione. L'avevano internato per vent'anni in manicomio, l'appendevano all'ingiù con la testa nel cesso. Raccontava anche strani riti, di messe nere, di bambini sacrificati, ma nessuno gli dava ascolto. (p. 116)
  • L'intrattenimento ormai è demandato alle casalinghe, traslocate dal bordello domestico a quello televisivo.
  • [La letteratura] Maggiore o minore è, comunque, non soltanto menzogna, è chirurgia scongiurata, devitalizzata, guazzabuglio di vita simulata.
  • [Le donne] Le trovi puttane e le lasci un secondo dopo madri e, negli intervalli dell' "accanimento matrigno", irreversibilmente depresse, toccate dall'"angoscia inconoscibile".
  • Si nasce e si muore soli, che è già un eccesso di compagnia.
  • Un grande artista, se davvero se ne sbatte dell'arte lasciandola a quello che è, ingloriosa defecazione, si pone per quello che è, un pericolo pubblico, un criminale. In questo senso, sono stato, sono un criminale. Ho sempre cercato il mio patibolo. Il cemento delle teste vuote contro cui andarmi a disintegrarmi. Mai cercando il sociale.
  • Disprezzo i giovani di questi ultimi trent'anni. Tutto il lager schiamazzante delle rivolte studentesche. Questa sciagurata età (tutt'altro che oisive) pericolosamente volitiva. Mummie foruncolose e imbellettate che, con la scusa di rivendicare e accattonare un mutamento, una riforma o altro, nidificano nell'autoconservazione. Questa perpetua assemblea è il confort della bestialità del branco. Di giovinazzi e giovinazze che, invece di sequestrare se stessi, "desiderando" (è l'etimo di "studio") e progettando in tutto privato, s'illudono di "okkupare" una scuola pubblica allo scopo cretinissimo di conferirle "dignità" ed "efficacia" innovativa. (p. 26)
  • Il comico è cianuro. Si libera nel corpo del tragico, lo cadaverizza e lo sfinisce in ghigno sospeso. (p. 31)
  • Era un metodo [metodo Sharoff] fondato sul risveglio dei sentimenti. Per commuoverti dovevi fare cose turpi, come pensare che tua madre era morta. Stanislavskj beato. Io a mia madre volevo molto bene, m'aveva pure concesso di iscrivermi all'accademia, ma pensarla cadavere mi ripugnava, e comunque non mi risvegliava un bel niente. Non mi faceva piangere. La morte, in generale, non mi ha mai fatto piangere. È così incipiente. È un incipit. (p. 44)
  • Non ero (e non sono) ancora mai stato a teatro. Per me il teatro era solo quello d'opera, il "Margherita" a Bari, l'Arena a Verona, a Roma "Caracalla", il "Politeama" di Lecce. Mi ci portavano i genitori, appassionati di lirica, quando andavamo in villeggiatura. Il teatro era cantato. Lo vedevo e soprattutto lo ascoltavo in radio. Ignoravo il teatro di prosa. E non ho mai più smesso di ignorarlo. (p. 41)
  • La musica? Il silenzio della musica. Quella grande pausa collocata subito prima dell'incipit strumentale della Quinta sinfonia di Beethoven. (Carlos Kleiber è stato l'unico magico direttore d'orchestra che, in una lontana sera in "Santa Cecilia", è stato in grado di farmi sentire perfettamente questo momento di musica silente). (1998, p. 53 [1])
  • Il culto della donna gravida, della puerpera e della mamma, è la più manicomiale abiezione della razza umanoide. Questa efferata "matrice" preferirei ammetterla come madre di Dio, purché fosse disposta a dimettersi come matrice dell'uomo. (p. 91)
  • La sera della prima successe un parapiglia infernale. Questo Greco, poco assuefatto al bere, si briaca di brutto [...] L'apostolo Giovanni (il Greco) cominciò a dare in escandescenze [...] In ribalta si alza la veste, mette il lembo fra i denti e comincia a orinare nella bocca dell'ambasciatore d'Argentina, della consorte in visone e dell'addetto culturale.
    Nel frattempo, si faceva passare le torte destinate al dessert e le spappolava in faccia a quel diplomatico e signora [...] Fui condannato in contumacia [... e poi] assolto per essere estraneo ai fatti. (pp. 131-133)
  • [L'orecchio mancante è] un pamphlet [... sui] diversi modi in cui, attraverso lo script cinematografico, si possa deturpare la poesia. Forse, la cosa più disgustosa che abbia mai abortito. Contro l'orrore dell'immagine e della scaletta a monte, quella che si chiama soggetto. (1998; p. 229)
  • Nessun'azione può realizzare il suo scopo, se non si smarrisce nell'atto. L'atto, a sua volta, per compiersi in quanto evento immediato, deve dimenticare la finalità dell'azione. Non solo. Nell'oblio del gesto (in questo caso tirannicida) l'atto sgambetta l'azione, restando orfano del proprio artefice. (p. 237)
  • Dalla fessura del cancello filtra la sagoma alticcia di Ruggiero Orlando, la bottiglia di scotch in pugno. Barcollando, poggiandosi precario a provvidenziali fusti indovinati al buio, accostandosi al tavolo da gioco: "Caro Carmelo... ho saputo che sei apparso alla Madonna!", e giù, piegato in due, in uno sgangherato sghignazzo dei suoi. C.B. folgorato; "ecco il titolo del mio libro". (p. 239)
  • Insieme a Eduardo, progettammo all'epoca un film da La serata a Colono, il capolavoro della Morante, vertice della poesia italiana del Novecento. Sorbendo il tè nel suo attico al centro, Elsa ci sollecitava a realizzarlo, ritenendoci gli unici in grado di farlo. Testimone allora Carlo Cecchi, che fu vicino alla Morante nei giorni estremi del coma. Ricoverata in questa clinica da quattro soldi, senza più l'uso delle gambe, in miseria, dimenticata da tutti. Aveva rifiutato anche il televisore. Voleva restare lucida sino in fondo. Non so bene se e cosa Moravia abbia fatto per Elsa. L'unica cosa che ho sempre rinfacciato ad Alberto è di non aver saputo impedire quello scempio vano delle collette pubbliche e degli appelli umanitari nei giornali. (1998, p. 298)
  • [Salomè è] l'impossibilità del martirio in un mondo presente, non più barbaro, ma esclusivamente stupido. (p. 305)
  • Alla prima [di Salomè] al Palazzo del cinema, stipato di più di tremila bestiacce, accadde l'inverosimile. Urlavano di tutto [...] Il prefetto aveva un gran da fare a sedare i tumulti [...] I veneziani in frac mi sputavano addosso, li benedicevo e loro si incazzavano ancora di più. Evitai il linciaggio grazie alla barriera umana dei celerini, per una volta dalla mia parte. (p. 306)
  • Io non sono marxista perché non sono romantico fino a questo punto. (1998, p. 359)
  • Per me, Pasolini è il più grande filologo e grecista che abbiamo avuto in Italia. (1998, p. 177)

Autografia d'un ritratto

[modifica]
  • Si è costretti all'esserci trafelato: questo piegarsi alla rappresentanza, ai libri, a questa nourriture della quale avrei fatto assolutamente a meno. Non si scampa alla volgarità dell'azione, alla scorreggia drammatica di Stato. Si è obbligati allo scandalo, quasi fosse la "prima comunione" con l'indifferente prossimo tuo, con l'odiato condominio che non detesterai mai quanto te stesso. (tav. VI)
  • Un'azione fermata nell'atto è quanto m'è piaciuta definire sospensione del tragico. È così che, grazie all'interferenza d'un accidentaccio, la surgelata lama del comico si torce lancinante nella piaga inventata tra le pieghe risibili-velate della rappresentazione nel teatro senza spettacolo. (tav. X)
  • Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento. (tav. VI)

Lorenzaccio

[modifica]
  • Lorenzaccio è quel gesto che nel suo compiersi si disapprova. Disapprova l'agire. E la storia medicea, dispensata, non sa di fatto stipare questo suo (–) enigma eroico; ha subìto e glorificato di peggio, questa Storia. Ma le cose son due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse dalla arbitraria arroganza dei 'fatti' accaduti (infinità degli eventi abortiti); o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall'incoscienza dei rispettivi attori (perché si dia un'azione è necessario un vuoto della memoria) che nella esecuzione del progetto, sospesi al vuoto del loro sogno, così a lungo perseguito e sfinito, dementi, quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in pieno. (p. 9)
  • Filippo: Avresti deificato gli uomini, se non li disprezzassi.
    Lorenzo: Ma io non li disprezzo, li conosco. Ve ne sono pochi pessimi, molti vigliacchi e tanti indifferenti.
    Filippo: Sono contento. Sì, mio malgrado, mi batte il cuore.
    Lorenzo: Meglio così.
    Filippo: ... Neghi forse la storia del mondo intero?
    Lorenzo: No, non nego la storia, ma io non c'ero. (p. 1306)

Nostra Signora dei Turchi

[modifica]
  • Non pensare alla parola santo quattro volte e nemmeno sentirsi investito, equivaleva ad esserlo per quattro secondi. [41]
  • "Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno vista la Madonna". Io sono un cretino che la Madonna non l'ha vista mai" [...] Ma i cretini che vedono la Madonna, non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro: miracolo è la trasparenza [...] I cretini che non hanno visto la Madonna, hanno orrore di sé, cercano altrove, nel prossimo, nelle donne – in convenevoli del quotidiano fatti preghiere, – e questo porta a miriadi di altari [...] I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all'assoluto comunque. Essere più gentili dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione. (p. 76-79)
  • Attiguo a casa sua stava un palazzo moresco, denunciato dal salmastro, orientale, come un riflesso sbiadito. Scrostato sotto le volte degli archi e sulle cupole. Abitato l'inverno da Cristiani comodi che nell'estate pagana cedevano le due ali sul mare per non morire di fame. Proclamato la fine lo stato d'assedio, quel palazzo sarebbe diventato il quartier generale dei Turchi che di tra le viole del cielo assolato avevano ammainato le mezzelune. (p. 84)
  • Quella costruzione era un sunto di storia, oppure no. Era il suo carnefice convertito proprio quando toccava a lui, cinquecento anni fa. Le esecuzioni di 800 e più martiri ebbero luogo in un campo di grano di quei coloni inturbantati che mietevano spighe d'oro ingemmate in cinabro, impazziti all'incanto di quella miniera di Fede. (p. 84)
  • In quell'occasione egli pensò che sarebbe stato facile incontrarsi un'ultima volta. Era un santo a pregarla. Perciò le aveva scritto: "Vieni, stavolta è grave". E la risposta di Lei fu "stai tranquillo, ora non posso davvero. Vedrai che tutto andrà bene". Pose il capo su un sasso e la sognò. Si ridestò che ancora non l'avevano decapitato. Guardò in alto cercando il suo carnefice e lo trovò crocifisso. Gli spiegarono che era stato così punito perché aveva all'improvviso mutato fede. Poi gli dissero di levarsi e andarsene. Lui non aveva osato insistere, lo avevano umiliato, non c'è dubbio, ma l'avrebbe rivista. (p. 85)
  • Se fosse stato vero il palazzo moresco, sarebbe anche vero oggi che le sue ossa figurerebbero sui velluti rossi nella cripta della Cattedrale di Otranto, incastrate, nel prodigio che le vuole ancora rivestite di carne, dopo tanto, come in quell'altro tutto suo miracolo che dopotutto la pensava ancora. (p. 85)
  • Fin da ragazzo un monaco gli aveva insegnato che non esiste l'ingiustizia e i nemici. Come tutto è una vasta pineta [...] Dormi, cambiamo i fiori. Se non fossi un palazzo, mi crederebbero. (pp. 172 e 175)

Credito Italiano V.E.R.D.I.

[modifica]
  • Se il mondo fosse la visione che ne abbiamo e non quella che il mondo ha di noi saremmo forse più riservati. (p. 179)
  • Non era un anno, ormai, ma molto più, che gli era entrato in testa un chiodo fisso: che la fortuna lo perseguitasse, invereconda in una morsa di ferro... Voglio vivere zoppo se tu mi vuoi, ma di tutte e due le gambe, perché con una gamba sola si può volare... (p. 224)
  • Se ne stavano entrambi ora, seduti, completamente nudi, [...] Nemmeno l'avessero fatto apposta, gettarono, all'unisono di una pausa obbligata, lo sguardo nel baule scoperchiato: banconote a mazzetti da diecimila lire traboccavano, sfidando i limiti della capienza, nuove di zecca. La fiamma crepitava minacciando di estinguersi. Si guardarono negli occhi, senza volerlo o vedersi. Ne prelevarono, meccanici, un pacco per uno, come accingendosi a una partita di ramino [...] Giacobbe pescava con la sinistra e con la destra bruciava... (p. 186)
  • "A che pensi?" si senti domandare. "È atroce!" le sorrise. "Non riesco a scacciare il pensiero che da un momento all'altro potrei rifarmi". (p. 186)
  • Che intendeva fare Giacobbe? Dopo aver bruciato cinque miliardi di lire italiane, ridotto sé e Rachele all'indigenza, gli sarebbe mancato altro che un vecchio padre da sostentare, sicuramente invalido. Appunto, era questo che gli mancava. (p. 227)

L'orecchio mancante

[modifica]
  • Tanto per cominciare deve costare poco ne siamo fatte un'altra l'anno venture come si chiamò... Pallida... la mia signora? Vi presenta la mia signora pallida... La manina, come cazz' si chiamava... – Centoventimilioni centosessanta se non vi vado errando quell'era provvisoria come il titolo quella era un altro per l'arreda è fatte sempre cose di litterature sono comunguo... Porca... non me ricorde che fa così poooortoooil mantearrighe e fa l'avvocato che poi al secondo tempo pure lui fa il notaio che poi lei muore... perché era malata ahhaaa era pallide aaaahaaa; pallida, pallide! pallide!!! [...] (p. 231)
  • E la speranza è tanta | che non mi basta più | ma tale che m'avanza musicale | la vita. (p. 265)

La voce di Narciso

[modifica]
  • Non esisto dunque sono. Altrove. Qui. | Dove? m'apparve il sogno ad occhi aperti | di Lei che non fu mai | Colei ch'è mai vissuta e mai morì. (p. 995)
  • Il Vampiro-Attore è paradossalmente il Femminile elevato a Coscienza [...] Il teatrino dell'Io frantuma [...] (p. 997)
  • È l'impunita, recidiva immaturità dei morti. Questo soltanto può produrre poesia toccante. Tutto il resto è teatro [...] Nel teatro del non rappresentabile, l'Attore è infinito. È l'infinito della disattenzione para-statale. È l'infinito della mancanza di sé. (pp. 998-999)
  • Nel grande oblio dei palcoscenici d'oro, la parola fu musica, finché l'avvento del'epos-euripideo-socratico rovinò la poesia tragica in dialettica [...] defraudando il teatro della sua consolazione metafisica, per degradarlo a istituto per la formazione morale del popolo. (p. 1005)
  • Se il socratismo dialettico caccia il miracolo dalla scena, per instaurarvi il testo razionale disastrosamente affidato alla lettura di attori 'intellettuali', il teatro è morto. È inutile l'inutile della grande estate tragica [...] Il teatro è sfinita e insensata rappresentazione, cerimonia funebre officiata da un prete cialtrone (il nus di Anassagora), reggitore e 'coordinatore del tutto': il regista e un suo chierico; cercano entrambi 'un letto in un domicilio altrui'. Figurarsi gli astanti: senza fede alcuna e nessuna parentela col defunto, convenuti un po' a svagarsi a questo funerale a pagamento. (p. 1008)
  • [Riferendosi agli attori del "teatro della rappresentazione"] Essi esibiscono, quasi un virtuosismo, la stupidità della propria facoltà mnemonica (anche leggendo) nient'affatto sfiorati dalla necessità urgente della memoria in quanto scrittura vocale. Essi dicono e ricordano altro. Dicono e non son detti. Non son parlati. Parlano [...] riferiscono il testo [...] (pp. 1014-1015)
  • Non può il concorso simultaneo o no di più 'mezzi espressivi' meritare la 'totalità' artistica (e dovunque così la si ricerchi ne risulta un pasticcio insensato)'. [...Si deve scongiurare] l'equivoco mimetico visivo, sollecitato sempre dalla peregrina illusione che l'assemblaggio in scena di differenti "mezzi espressivi" realizzi il "totale" a teatro [...] (pp. 1018-1019)
  • [Tamerlano] ... non è un eroe omerico favorito dal dio. È piuttosto la somma delle (sue) parti avverse in campo, ivi soprattutto comprese il dio [...] Dominatore incontrastato, è quanto si sostituisce allo spettacolo. (pp. 1022-1223)
  • La perfetta fusione del grande attore critico e l'istrione cabotin che, in continuum, si assume il compito di complicare la vita del grande attore" [...] L'istrione ha il compito di sgambettare il disegno che il grande attore critico sta allora tracciando sulla scena [...] Il non-attore è l'artefice per eccellenza: carisma a parte, la sua presenza in scena è poesia. Tutto il resto è teatro. (p. 1026)
  • Il governo italiano non intende detassare i teatranti al botteghino e chiudere una buona volta per tutte il ministero dello spettacolo. Lo stato democratico, finanziando chiunque a tutti i costi, difende la platea dalla eventualità poetica dei mostri. Lo stato paga tutti, corrompe tutti indiscriminatamente a un solo prezzo: derubare, paralizzare uno solo (forse due?) altro; e questo altro può giuocare, se vuole e finché vuole, l'aristocrazia che gli è propria; può, se vince il disgusto, seguitare il suo sogno "vittimistico", fatto incubo. Può seguitare a esprimere quella irritante irrappresentabilità che gli è propria, sul palcoscenico patibolare della (in)tolleranza sociale. (p. 1028)
  • Sento in tutta coscienza di non meritare comprensione alcuna. Il poeta vuol essere trascurato, perché rimanga tale. (p. 1032)
  • L'avvento della donna sulle scene segna una volta per tutte la scissione tra maschio e femmina, condannati a caratteri sessuali, differenti nel senso diversi l'uno dall'altra, cancellando da una parte l'erotismo ... e dall'altra l'osceno ..., la perversione che è il teatro nel suo farsi: il fantasma. (p. 1039)
  • Si tratta di vedere in che misura la revoca di quel divieto alla donna d'essere attrice abbia contribuito al definitivo smarrimento del riso sulle scene. A mio avviso, non vi ha soltanto contribuito: ha addirittura rovinato la festa, o almeno quel che ne sarebbe potuto avanzare. (pp. 1037-1038)
  • La donna sarebbe stata riammessa sulle scene, al solo scopo ingrato – in quanto simulacro di donna – di scongiurare la femminilità e il degenere così precipitati [...] Estratta dalla sua realtà sociale, solo apparentemente libera in arte, è doppiamente svergognata in palcoscenico [...] (p. 1040)
  • Il mio disprezzo per l'attore contemporaneo è qui: nella sua tanto ricercata incapacità di mentire, nel suo elemosinare una sciagurata attendibilità; nella sua ormai troppo provata incapacità di rimettere in gioco ogni sera il modo stesso di far teatro; nel suo terrore imbecille d'autoemarginazione; nel suo noioso cicalare di "crisi del teatro" e perciò mai tentato abbastanza dal valzer d'un teatro della crisi; nella sua tecnica (se mai così può definirsi un limite penoso) esclusivamente maschia». (p. 1036)
  • Importante nella bambina è l'assenza della donna. Che cos'è la bambina? Cosa non è, intanto? Non è donna. È deliziosa perché non è. Donna è. Ed è tutt'altro che 'bello'. Fare delle bambine delle donne in minore è volgare [...] La bambina, provvidenza incosciente dell'onnipotenza, è un miracolo, perché, mancandoci come donna, è tuttavia reale e viva. È opera d'arte. (pp. 1042-1043) [...] La bambina è giuoco innocente e perverso. (p. 1044)
  • [Beatrice è...] un nome e al tempo stesso un nome convenuto, quasi la cifra dell'innominabile. È quel che manca in un nome [...] È l'afasia della nominazione". (p. 1046)

Sono apparso alla Madonna

[modifica]
  • V'è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento. Affondare la propria origine – non necessariamente connessa alla nascita – in terra d'Otranto è destinarsi un reale-immaginario. E lì, appunto, nel primo dì di un settembre io fui nato. Otranto. Da sempre magnifico, religiosissimo bordello, casa di cultura tollerante confluenze islamiche, ebraiche, arabe, turche, cattoliche. Ne è testimone la stupenda cattedrale. Il suo favoloso mosaico figurante l'"albero della vita", dell'anno 1100. (p. 1052)
  • [...] "sospensione del tragico", al rifiuto di essere nella storia, anche e soprattutto in scena. L'essermi come Pinocchio rifiutato alla crescita è se si vuole la chiave del mio smarrimento gettata in mare una volta per tutte. L'essermi alla fine liberato anche di me. (p. 1052)
  • Fu proprio a Genova che iniziò il mio calvario di Don Giovanni. D'allora in poi l'assenza della Madonna che era in me, e in che ormai consistevo, meritò tutta la prassi fin troppo ossessiva della presenza della donna nella vita e sulla scena. (pp. 1062-1063)
  • Don Giovanni non è certo l'impotenza – secondo certa stoltezza di certo femminismo. È il femminile stesso che va a verificare i propri vuoti nella mortificazione del corpo donnesco. (p. 1063)
  • Tutto questo [ovvero la mancanza del femminile nella donna] non comporta un astio nei confronti della donna o delle donne, ma semmai un'infinita agape schopenhaueriana, semmai lo stupore infinito che la donna non sia l'abbandono. (p. 1065)
  • Non si trattava di una metodologia interdisciplinare [allorché Bene inizia a dedicarsi alla scrittura], ma, nella mia prassi letteraria, di una musicalità anche nella scrittura. Covava l'esigenza antiumanistica per eccellenza. Covava "domina", l'indisciplina. (p. 1070)
  • Per dirla tutta, il mio teatro cominciò là dove già l'avevo scontato, là dove non c'era più nulla da dire, ma da esser detti. (p. 1071)
  • Giovanissimo capocomico, senza un soldo, circondato finalmente da guitti straordinari reperiti nel Borgo Santo Spirito dalla signora D'Origlia e dal cavalier Palmi, miei ottimi amici. (p. 1071)
  • [Riferendosi alla Compagnia D'Origlia-Palmi] Erano formidabili derisioni ai danni dell'identità [...] Scacco giurato al ruolo... (p. 1073-1074)
  • E dio sa quanto sia tempo vano iniettare una sola stilla femminile in donnesca creatura. Il mascolino la possiede inclemente, queste femmine, inimiche giurate dell'abbandono una volta per tutte. (p. 1088)
  • [La donna ha] tanti miracoli a sorpresa, che soltanto l'arroganza politica omaccia interdice loro di compiere, sissignori: "d'esprimersi". (p. 1088)
  • Il sempre a sproposito auspicato riscatto della donna è soprattutto il misconoscimento della sfera estetica. (p. 1088)
  • La "cosa"-donna esige un suo recupero, ahimè legalizzato, del maschile che, santo iddio, le è proprio da per sempre. (p. 1089)
  • Da quei balconi arcati, leggi nei giorni chiari Albania rosa. Senti ognora la vita scelta a forza. Tristo, tristo indovinello sbiadisce sul fondale a flutti neri dipinti ripetutamente in basso dell'azzurro infinito. Azzurro d'Africa. Sotto, immediato è il brontolio sulfureo – cassa a lutto tra le rocce ciclopiche, orrendo corpo che vi si dilacera. (p. 1090)
  • Leggevo a mezza voce, proprio per niente mortificato di non capirci niente. (p. 1107)
  • L'erotismo è linguaggio d'accatto prenatale. Eccederlo è inoltrarsi nella quiete che somiglia quella della gente morta. (p. 1116)
  • V'era (v'è) dunque, un apparire della voce che sempre si verifica se conferisci c o n, se parli a. Quand'io incominciai a render vano l'udire... mi diceva la voce, il mio interno cantar l'ascolto, e, ventilata da un'ala d'emicrania, la mia mente d'altrove profondava nel sud del Sud dei santi; ma depensata lieve in mongolfiera in celeste balìa sull'infinito del mare stanco. (p. 1126)
  • Nostra Signora dei Turchi fu un grido al nuovo cinema che era nato. Ma in Italia basta voltarsi un attimo e non si è più. (p. 1138)
  • Certo, Eduardo scrive "a monte" qualcosa che poi potrà minare in scena da quel grande attore che è. Non so quanto scientemente, ma lui si predispone la sua trappola, il famigerato copione cui crede tanto, tanto da restare ai posteri. In questo è donchisciottesco, e lo amo molto. Come si fa a non amare Don Chisciotte. (p. 1146)
  • Poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, e, soprattutto, urgenza, vita, sofferenza [...Poesia] è risuonar del dire oltre il concetto. È intervallo musicale d'altezza [...] È l'abisso che scinde orale e scritto. (p. 1155-1156)
  • [riferendosi al "discorso silenzioso", senza parole, tra Bene e Jacques Lacan] Si evitava il laicume del più e del meno, il convenevole? Ma sì, d'altro non c'era [...] La sovrintelligenza di Lacan meritò alla mia lucida stanchezza questo indimenticato incontro a vuoto, concedendo un bel niente all'occasione frastica convenevole di che gli umani si derubano quotidie in malintesi truccati da "rapporti. (p. 1163-1164)

L'Adelchi o la volgarità del politico

[modifica]
  • Tutta la storia è storia della phoné. Si dà rappresentazione solo nella pagina scritta; la storia redatta, che non è più quella storia. Ogni storia redatta è immaginaria. Puoi rivisitarla unicamente attraverso il linguaggio. (Ri)viverla "originalmente", quale messa in crisi del linguaggio. Attendibilità dei fatti (nel tuo produrti) è il tuo stile. E la mortificazione del tuo stile. Perciò "attendibile" è solo il romanzo storico. O il "discorso" su certa storia. Alessandro Manzoni è un maestro di Storia.
    L'esame arrogante del come fu veramente somiglia l'idiozia del teatrante sempre pronto – beato lui – a propinarci Shakespeare "come (fu) scritto", "quello vero", la "versione integrale di", e via tacendo.

Hamlet Suite

[modifica]
  • Povero pallido individuccio | che non crede che al suo io che a tempo perso | Vidi svanire la mia fidanzata | portata via dal corso delle cose | Così lo spino vede sfogliarsi | col pretesto che è sera | le sue più belle rose. (p. 1363)
  • Esser celebri lontano da qui! | Oh, cara aurea mediocritas! | Ma l'arte è tanto grande, | ... e la vita così breve! (p. 1373)

'l mal de' fiori

[modifica]

Citazioni

[modifica]
  • Dans la poesielavie | le toût que s'offresouffre | éclate jamais de rire | – ah le bleu charme du gouffre! – | n'importequoiismetriste | de cette vielapoesie | au bain-marie artiste (p. 5)
  • Se tesa duole | questa mano se vuole | afferrare per l'oro de' capelli | la gloria se mi sfiora | nera una forza ne disvuole il gesto (p. 28)
  • Voce mia tua chissà chiamare questo | Mia tua chissà la voce che chiamare | ventilato è suonar che ne discorre | in che pensar diciamo e siamo detti | vani smarriti soffi rauchi versi | prescritti da un voler che non si sa | disvoluto e alla mano intima incisi | segni qui divertiti disattesi | sensi descritti testi | d'altri che morti fiati | dimentichi 'n mia tua chissà la voce || Noi non ci apparteniamo È il mal de' fiori | Tutto sfiorisce in questo andar ch'è star | inavvenir | Nel sogno che non sai che ti sognare | tutto è passato senza incominciare | 'me in quest'andar ch'è stato (p. 37)
  • Principessa notturna dei penultimi | primamori sovrana non è questa pagina in che dirti | opportuna Non sei! si può evitare una scenata non sai | ma è presto detto che immediato | pardispar un pensando a te tra i versi | incantato ch'è alieno ma di grazia (p. 38)
  • Tie jentu miu percè cchiu nu rrefiati | intra sta capu a fiuri? Ieri ssira | nu sciardinu ccantatu era sta capu | te sciumei te carrofali arvereddi | erdi de parme ccetratina e 'rose | gersumini gerani nu ndurare | ddacquatu te pensieri (p. 78)
  • ... siccome è gira gira ferma qui a noi d'accanto | su 'l perno 'l suo 'na giostra | di ciuchi 'cartapesta che si dondolano | immoti e vanno vanno | in chissadove infanzia... (p. 143)
  • Tu 'un lo senti che noialtridue siccome l'altri | s'è digià fradiciata porannoi morta gente | come tu la mi mà che son 'nterrati | raggirati nun so da che issoletico...(p. 145)

Citazioni su 'l mal de' fiori

[modifica]
  • Non si può che confermarsi 'stranieri nella propria lingua'. Il plurilinguismo (crogiuolo di idioletti, arcaismi, neologismi di che trabocca il poema) è il contrario d'una accademia di scuola interpreti. È 'Nomadismo': divagazione, digressione, chiosa, plurivalenza, ecc. Il testo intentato è (deve essere) smentito, travolto dall'atto, cioè de-pensato.[42]
  • Nel 'mal di questi fiori' si fa sempre più solare il fatto che laddove il tutto possa sembrare una eruzione vulcanica, è invece somma-sottrattiva che, mediante le più svariate soluzioni chimico-linguistiche, via via si svuota.[42]

Amleto (da Shakesperae a Laforgue)

[modifica]
  • Avevo cominciato con il dovere di rammentarmi l'orrido, orrido, orrido evento. Per esaltare in me la pietà filiale, per far gridare l'ultimo grido al sangue di mio padre, per riscaldarmi il piatto della vendetta. Ed ecco invece ho preso gusto all'opera. Poco a poco mi scordai che si trattava di mio padre assassinato, di mia madre prostituita, del mio trono. Andavo avanti a braccetto con le finzioni di un bell'argomento... e l'argomento è bello.
  • E questo non è niente, Kate, non è niente. Ti leggerò tutto, andremo a vivere a Parigi. Io ti amo, ti amo, ti amo: vèstiti, vèstiti, tu sei un angelo in scena, un mostro sacro. Vèstiti. Faremo colpo. Vèstiti. Me ne fotto del mio trono. I morti son morti. Vedremo il mondo! Parigi, vita mia: a noi due!
  • Perdono, perdono. Tu mi perdoni padre mio, non è vero? Tu mi perdoni, in fondo mi conosci. ("Amleto" televisivo di C. Bene, Rai 1977)
  • Spento l'amore, subito dimenticato. L'impeto della gioia e del dolore, i suoi propositi stessi distrugge da sé. Dove più esulta la gioia, più grave è il dolore. Mutiamo gioia e duolo per lieve cagione. Il mondo non è eterno. E non è cosa strana che muti col mutar di fortuna, l'amore. È problema rimasto mai sempre insoluto, se guidi amor fortuna o fortuna amore. Ma per tornare là donde siamo partiti, destino e volontà battono via i divergenti, così che i nostri piani van sempre diserti, perché nostro è l'intento, ma l'esito, no. ("Amleto" televisivo di C. Bene, Rai 1977)

Citazioni su Carmelo Bene

[modifica]
  • Bene ha lottato con tutte le sue forze contro il naturalismo e la drammaturgia borghese di matrice ottocentesca, riscattando l'attore dalla condizione riduttiva di mera maestranza (così lo aveva definito Silvio D'Amico) e restituendogli dignità di artista, personificazione assoluta del mezzo, con il compito altissimo non semplicemente di interpretare ma di ricreare testi anche classici nati dalla penna di scrittori talvolta indifferenti alle peculiarità del linguaggio scenico. Il teatro di testo, filologico e immedesimativo, dev'essere soppiantato nell'idea di Bene da un teatro in grado di farsi «scrittura di scena»: il teatro del detto dev'essere scalzato dal teatro del dire o, secondo la formulazione di Roland Barthes, la significazione monolitica del testo dev'essere ricondotta a un'erratica e interminabile "significanza", la serietà finita del significato dissolta nel gioco infinibile del significante. Perché il teatro del già detto è ripetere a memoria parole di altri, quello che Antonin Artaud definiva un «teatro di invertiti, droghieri, imbecilli, finocchi: in una parola, di occidentali». (Fabio Vittorini)
  • Carmelo Bene conobbe Alberto Ruggiero all'accademia d'arte drammatica Silvio D'Amico. Insieme ne combinavano davvero di tutti i colori [...] Anche dietro le quinte del Caligola succedeva un po' di tutto, in particolare, a causa delle follie del regista. (Giuliana Rossi)
  • Carmelo Bene era un'impresa di demolizione, uno splendido terrorista culturale che ha esercitato il terrore soprattutto su sé stesso. (Giancarlo Dotto)
  • Carmelo Bene ha una profonda avversione per le formule dette d'avanguardia. Si tratta invece di un'operazione più precisa: si comincia col sottrarre, col detrarre tutto quanto costituisce elemento di potere, nella lingua nei gesti, nella rappresentazione e nel rappresentato. [...] Si detrae dunque o si amputa la Storia e il marchio temporale del potere. Si toglie la struttura perché è il marchio sincronico, l'insieme dei rapporti tra invarianti. Si tolgono le costanti, gli elementi stabili o stabilizzati perché appartengono all'uso maggiore. Si amputa il testo, perché il testo è come il dominio della lingua sulla parola, e testimonia ancora un'invarianza o un'omogeneità. Si sopprime il dialogo, perché il dialogo trasmette alla parola gli elementi del potere, e li fa circolare [...] (Gilles Deleuze)
  • Carmelo Bene mi ha aperto la testa e mi ha fatto vedere il mondo. Lui non era solo un regista, era un vulcano pieno di lava e di ispirazione, di poesia e di dolore. Mi ha insegnato a imparare dai grandi e a lasciar perdere gli inutili. Un giorno mi ha sorpreso mentre stavo leggendo Carver e ha cominciato una filippica contro Alberoni e i sociologi. In quel momento era Kierkegaard, Shakespeare. Era Carmelo Bene. Non conosceva Carver ma era come se ne avesse penetrato il pensiero. Con lui si lavorava finché non sorgeva il sole. Anche dopo l'operazione e il by-pass continuava a provare e riprovare tutta la notte. Era bionico. (Cecilia Dazzi)
  • Carmelo Bene sa perfettamente che udire non è andare dal suono al senso, e che non basta articolare la parola al rumore per sbarazzarla del senso. Sa che l'udire ci situa immediatamente nella regione del senso, e che per perdere il senso occorre anche perdere il suono del senso. (André Scala)
  • Carmelo Bene è un grande uomo di teatro che, come tutti gli uomini di teatro che contano, ha rotto con le tradizioni. È uno che ha sorpreso, che ha messo a disagio gli schemi, soprattutto, e la gente schematica riguardo al teatro. È uno che capovolgeva le regole, che ha tenuto veramente in grande considerazione che [la] prima regola nel teatro [è che] non ci sono regole... E questo naturalmente gli ha portato all'inizio, così, una specie di opposizione da parte dei tradizionalisti, ma poi ha vinto, ha vinto, ha avuto successo in tutta l'Europa. (Dario Fo)
  • Carmelo aveva davvero uno strano rapporto con la polizia. Per esempio, agli esordi, c'erano sempre molti agenti nei teatri dove recitava, stavano all'erta, mentre quando divenne famoso se non li vedeva in sala, li invocava. (Giuliana Rossi)
  • Carmelo ispirava fiducia a poche persone. Aveva una fisionomia che destava antipatia, soprattutto tra i poliziotti, che quando lo vedevano quasi sempre si irritavano. (Giuliana Rossi)
  • Carmelo non è un regista, è uno sciamano fanatico che vuole stringere fra le dita il fegato della gente. Praticamente in una sola notte butta giù il copione fumando e bevendo senza mai interrompersi, nemmeno per restituire alla madre terra quel che beve. (Tonino Conte)
  • Come Carmelo Bene, io sono postumo. (Morgan)
  • Con Carmelo si tendeva sempre a creare l'immagine, non ci si poteva accontentare di fotografare soltanto, di riprendere senza intervenire con colori rinforzati dai filtri, senza usare la cinepresa come un organo prensile. (Mario Masini)
  • E cercavo un lavoro. e mi dicevano "... ma lei cosa ha fatto?..." "Carmelo Bene". "Beh, allora non se ne parla nemmeno...". (Carla Tatò)
  • Dalla scuola era stato cacciato dopo uno spettacolo-saggio (un Caligola di Camus) considerato sgangherato e scandaloso dai docenti ma esaltato in un bell'articolone da Nicola Chiaromonte. (Tonino Conte)
  • È curioso che si dica di Bene: è un grande attore, complimento misto a rimprovero, accusa di narcisismo. L'orgoglio di Bene sta più nel far scattare un processo di cui egli è il controllore, il meccanico o l'operatore (egli stesso dice: il protagonista) piuttosto che l'attore. Partorire un mostro o un gigante... (Gilles Deleuze)
  • E devo dire che quando si è vista una volta una rappresentazione di Bene, nella almeno triplice partizione di attore-autore-regista, non si ha più voglia di vedere gli altri, quale che sia il loro nome o la loro prestazione, tanto incolmabile diventa la differenza tra una personalità drammatica quale è la sua, e un interprete qualsiasi. (Jean-Paul Manganaro)
  • È probabile che un giorno il successo convincerà Carmelo Bene di aver sbagliato tutto, il successo può arrivare fatalmente in una "civiltà di consumi" che adotta e riconosce con furia come proprie le novità che appena ieri riteneva aliene e sovvertitrici. (Ennio Flaiano)
  • Era umile, sembra strano dire questo, ma era uno umile. Era un'umiltà straziata e vera, storica, come la si potrebbe pensare oggi di un santo antico, un'umiltà armata di spada, armata di dolore. Era uno umile e indifeso, di cui si sentiva che andava protetto, e bisognava proteggerlo, proteggerlo dalla propria umiltà. Era antico, di un'antichità ormai difficile da reperire nei volti e nei gesti degli altri, contraffatti nella smorfia di questo tempo smorfioso, in cui bisogna somigliare a qualcuno, era uno antico, di un'antichità da repubblica romana, un'antichità antica, in cui era trascritta la forza e la violenza della sua umiltà umana. (Jean-Paul Manganaro)
  • Essere uno straniero, ma nella propria lingua... Balbettare, ma essendo balbuziente nel linguaggio stesso, e non soltanto nella parola... Bene aggiunge. parlare a se stesso, e non soltanto nella parola, ma in pieno mercato, sulla piazza pubblica... [...] Balbettare, in genere, è un disturbo della parola. Ma far balbettare il linguaggio è un'altra cosa. Significa imporre alla lingua, a tutti gli elementi interni della lingua, fonologici sintattici, semantici, il lavorio della variazione continua [...] ... essere straniero nella propria lingua... Ciò non vuol dire parlare come un irlandese o un rumeno parlano francese. [...] È imporre alla lingua, in quanto la si parla perfettamente e sobriamente, quella linea di variazione che farà di ognuno di noi uno straniero nella sua propria lingua, o della lingua straniera, la nostra, o della nostra lingua, un bilinguismo immanente per la nostra estraneità. (Gilles Deleuze)
  • Ho amato immensamente Carmelo Bene, ma certo non gli somiglio. Il suo culto della parola poetica e musicale era unico, inimitabile, sacro. E anche irritante e ridondante, qualche volta. Ma mi ha sempre emozionato. (Stefano Benni)
  • Il grande attore – il suo teatro – non può avere ascendenze o discendenze; è diseredato di se stesso, perché è unico come fenomeno, è anzi il fenomeno dell'unico.
    Il testo di Carmelo Bene non significa nulla perché non significa là, dove lo si aspetta (è contro ogni aspettativa), ma significa altrove (è sempre e smisuratamente de-portato), sconvolto da passaggi erranti e peregrinazioni [...] (Jean-Paul Manganaro)
  • Il teatro di Bene è grande in quanto mostra l'indicibile attraverso il detto. Non potendolo proferire, il che equivarrebbe a tradurlo nei modi troppo umani dell'espressione, ne fa brillare l'epifania silenziosa dis-dicendo il flusso dell'oralità. (Umberto Artioli)
  • Io credo che il pubblico principale di Carmelo Bene sia Carmelo Bene. E questo è molto evidente soprattutto nella televisione. È grazie alla televisione che Carmelo Bene manifesta la sua distanza, la sua assenza, perché, intanto è uno che ha capito benissimo il senso televisivo, cioè il sesto senso televisivo. Nella diretta televisiva, reale o virtuale, diciamo, o semi-diretta, si esperimenta appunto il "non essere in diretta" che è il senso più forte di tutto il lavoro di Bene. Cioè il non essere mai spiaccicato su sé stesso, non essere mai la pura performance d'attore, la pura performance di regista... (Enrico Ghezzi)
  • Io credo nella necessità di una certa follia [...] Carmelo Bene mette nel suo amore per il teatro una notevole mancanza di raziocinio, ed è per questo che i suoi spettacoli, persino al limite dell'indignazione, hanno qualcosa di impensabile e di affascinante. [...] C'è insomma in Carmelo Bene, una volta avviato il giuoco, quasi il proposito di soffocare le sue felici intuizioni nella routine del bizzarro [...] Detesto chi fa i baffi alla Gioconda, ma non ho niente da dire a chi la prende a pugnalate. (Ennio Flaiano)
  • L'antagonista imperterrito, verace Andrògine, il mio CB, detto Carmelo Bene, il più grande e tempestoso Atto, o Attore, di ogni tempo. (Emilio Villa)
  • L'attore è un vivo che si rivolge a dei vivi, ma, in particolare nel repertorio classico, deve cessare di essere tale per apparire come contemporaneo del personaggio, simile a un morto tra i vivi [...] (Pierre Klossowski)
  • La macchina C.B. ha eliminato una volta per tutte una canonizzata distorsione secolare: nella dismemoria, nella lettura per potere dimenticare, nel dimenticare per esibire platealmente i precipizi della decisione e dell'azione, C.B. concorda ancora una volta con l'antica poiein della tragedia attica. (Edoardo Fadini)
  • La vera funzione politica del teatro di Carmelo era quella, presumo, di dividere la città e di mettere a repentaglio il luogo comune che tiene insieme la comunità umana: il linguaggio. (Romeo Castellucci)
  • Lavorare con Carmelo era come stare a bottega da un pittore. C’erano momenti in cui scompariva e non sapevo che sarebbe stato di me. Abbiamo provato per ore, giorni, mesi. (Sonia Bergamasco)
  • Le opere di Bene sono brevi, nessuno sa finire meglio di lui. Egli detesta ogni principio di costanza o di eternità. di permanenza del testo: "lo spettacolo comincia e finisce nel momento in cui lo si fa". E così, esse finiscono con la costituzione di un personaggio, non hanno altro oggetto che il processo di tale costituzione, e non vanno oltre. Finiscono con la nascita mentre in genere si finisce con la morte. (Gilles Deleuze)
  • Lo giuro: a vent'anni recitava come oggi. Non ho mai sentito nessuno leggere Joyce così. Accoccolato come il pastore errante dell'Asia sulla tettoia del night, con la piccola, inutile luna elettrica tra le mani, me ne sto ad ascoltare quella voce magica in quell'assurda notte. (Tonino Conte)
  • Mangiavo il gelato in una piazza di un paesino [del Salento], mi sporcai le mani e improvvisamente si presentò uno degli operai della fabbrica dove lavorava il padre di Carmelo; mi si avvicinò con grande umiltà portando con sé una catinella d'acqua e un asciugamano di corredo che aveva un po' di ricamo, si mise in ginocchio e disse: «Voscienza, lavatevi le mani! Voscienza benedica!». E non sapevo cosa fare, lavarle mi sembrava di mancargli di rispetto, non farlo pure. E nel frattempo facevo la sciocca, mi leccavo le mani, mentre mia suocera mi dava delle gomitate: «E lavati le mani?» Alla fine non riuscii e venni via mestamente da questo incontro. (Giuliana Rossi)
  • Mi ha chiesto in fin di voce di aggiustargli la coperta di lana sulle gambe. "Le gambe non le sento più". Di piegare i quattro orli, tutti allo stesso modo, simmetrici. L'ho fatto senza chiedermi perché, era tempo perso con lui chiedersi perché. Solo dopo aver controllato che tutto fosse al suo posto, si è abbandonato con le mani intrecciate sul petto. "Adesso voglio dormire", le sue ultime parole rivolte a Luisa, la compagna insostituibile degli ultimi anni. E si è preparato a morire. Somigliando impeccabilmente ai comatosi che aveva tante volte spiato nelle foto di guerra di David Harali, nelle poesie di Gozzano, nei Cristi di Mantegna, nei racconti di Poe e nei manuali di psichiatria di Krafft-Ebing. La morte migliore possibile, vegliato dal brusio delle donne che lo amano e che lo hanno amato, la femminile disattenzione che da sempre scortava i suoi eroi morenti di scena. (Giancarlo Dotto)
  • Noi facevamo tanti spettacoli ogni stagione, almeno tre o quattro, con i nostri mezzi [...] per avere sempre critica, per avere una risonanza. Questo dal 64 al 68. [...] E la mattina all'uscita dei giornali, era sempre un'attesa perché si sperava che qualche critico si accorgesse e ne parlasse bene. [...] La lotta di Carmelo Bene è stata una lotta contro i critici. Io gli dicevo "... ma lascia stare, fregatene..." ma non poteva perché diceva "...no, mi danneggiano [...] almeno si limitassero a spiegare la storia, aiutassero il pubblico" ..., invece erano solo stroncature. (Lydia Mancinelli)
  • Non abitare in nessun luogo, fabbricare il deserto, sparire come creatura; la vertigine dissociatoria che caratterizza la scena di Bene è l'equivalente della notte oscura dei mistici, la notte in cui ci si affida inermi al fascinans e al tremendum dell'esperienza interiore. (Umberto Artioli)
  • Non fiori ma opere di Carmelo Bene. (Marcello Marchesi)
  • Non si tratta di un anti-teatro, di un teatro nel teatro, o che neghi il teatro... ecc.: Carmelo Bene ha una profonda avversione per le formule dette d'avanguardia. Si tratta invece di un'operazione più precisa: si comincia col sottrarre, col detrarre tutto quanto costituisce elemento di potere, nella lingua e nei gesti, nella rappresentazione e nel rappresentato. E non si può nemmeno dire che sia un'operazione negativa in quanto dà inizio e mette già in moto tanti processi positivi. Si detrae dunque o si amputa la storia, perché la Storia è il marchio temporale del Potere. Si toglie la struttura perché è il marchio sincronico, l'insieme dei rapporti tra invarianti. Si tolgono le costanti, gli elementi stabili o stabilzzanti perché appartengono all'uso maggiore. Si amputa il testo. Si amputa il testo, perché il testo è come il dominio della lingua sulla parola, e testimonia ancora un'invarianza o un'omogeneità. Si sopprime il dialogo, perché il dialogo trasmette alla parola gli elementi del potere, e li fa circolare [...] Ma cosa resta? Resta tutto, ma in una nuova luce, con nuovi suoni, con nuovi gesti. (Gilles Deleuze)
  • Poteva scolare un litro e mezzo di whisky al giorno e un fiasco di vino, ma nonostante tutto questo alcol, non l'ho mai visto sbronzo, al massimo poteva essere un po' alterato. (Giuliana Rossi)
  • Pur avendo avuto successo con Caligola, Carmelo non trovava ingaggi. Il suo esordio fu molto eclatante, si trattò di qualcosa di dirompente. L'establishment teatrale preferiva attori e regie che non disturbassero più di tanto, volevano rimanere tranquilli. (Giuliana Rossi)
  • Quello che colpisce è proprio questo svuotamento totale, questo procedere per sottrazione, che in realtà, togliendo struttura, così come ha fatto con il teatro, togliendo il linguaggio e abbandonandosi al suono della parola, scarnifica a tal punto [da lasciare] in scena e quindi anche sulla pagina, come avrebbe detto Deleuze, il "tutto". (Elisabetta Sgarbi)
  • [A Mixer Cultura del 1988] Qui si sta parlando di Carmelo Bene come di uno scrittore di scena, si sta parlando di Carmelo Bene come un attore, ma mi pare che l'unica cosa di cui si possa parlare è la sua vera professione, cioè: l'antipatico. Come antipatico Carmelo Bene è assolutamente inarrivabile. [...] Questo è la cosa di te che io amo di più, perché davvero tu qui hai una vera creatività... Ma come scrittore scenico sei di una modestia sconfortante; le tue partiture, i tuoi collage sono di una pacchianeria veramente giovanilistica [...] Laforgue scrive molto meglio della spazzatura che tu tiri fuori da Laforgue... Poi mi permetto di dire anche [...] che come attore sei molto modesto. Hai la voce del Buce, quella che Gadda nel Pasticciaccio chiamava la voce del Buce, hai un fisico che non sai assolutamente portare... Lo spettacolo da Laforgue lo faceva vedere molto chiaramente. Sei anche truccato con una frangetta da parrucchiere di borgata, e insomma sant'Iddio, vuoi che ancora ci occupiamo di te seriamente... (Guido Davico Bonino)
  • [Giuseppe Patroni Griffi] Se la prende col pubblico di "malpensanti" che va a vedere gli spettacoli di Carmelo Bene nella speranza di assistere ad uno scandalo, come se per assistere ad uno scandalo, in questo paese, sia indispensabile andare a teatro. (Ennio Flaiano)
  • Sono apparso alla Madonna è l'esperienza e la frase che Carmelo ha scelto come titolo e come vertice della sua prima autobiografia. Una frase che non ha mai amato ripetere – lui che amava repertoriare e ribadire le sue battute migliori — ma che tutti invece ripetono quando pensano a Carmelo. La ripetono avversari o complici — è lo stesso — come fosse il massimo della provocazione o della dissacrazione, spesso dimenticandosi (gli uni e gli altri) che Carmelo è sì il campione teatrale della libertà ma anche il maestro della verità del teatro. E in verità e in teatro non ha senso ripetere una frase come quella, poiché 'sono apparso alla Madonna' non è mai stato un dire ma un fare di Carmelo Bene, un evento che ha segnato il corpo del suo attore e il corpus delle sue opere; apparire alla Madonna è diventato complemento della sua grazia e compimento del suo genio. (Piergiorgio Giacché)[43]
  • Teatro: "luogo" dell' entre-deux che non dà luogo ad alcun senso, ad alcuna rappresentazione, ad alcun linguaggio.
    Questa dimensione barbara e originaria del teatro, per sottrarsi alla rappresentazione, trova il proprio tempo nell'acronia, e per eccedere lo spettacolo si fa spazio dello straripamento, è quella aperta dal teatro di Carmelo Bene. Dal momento che il suo tempo [...] eccede la realtà, lo spazio e i corpi, questa dimensione non ha luogo in uno spazio dato [...] ma in quello straripamento del tempo e quello smarginamento dello spazio che è l'attorialità.
    L'attorialità: evento del non-luogo, ritrarsi attivo della presenza, espropriazione del soggetto: antispettacolo. (Camille Dumoulié)
  • Tutte le dichiarazioni d'orgoglio di Carmelo Bene sono fatte per esprimere qualcosa di molto umile. E anzitutto che il teatro, anche quello che sogna, è poca cosa. Che evidentemente il teatro non cambia il mondo e non fa la rivoluzione. Carmelo bene non crede all'"avanguardia". E tanto meno crede a un teatro popolare, a un teatro per tutti, a una comunicazione dell'uomo di teatro e del popolo [...] (Gilles Deleuze)
  • Un teatro nuovo come "scandalo", per gli anni sessanta: con Carmelo Bene che, misteriosamente, chissà per quali vie, parte da zone contestative del linguaggio drammaturgico tradizionale, e che sul piano interpretativo si muove su filoni non immedesimativi; il linguaggio drammaturgico sradicandolo egli dal testo letterario o da un materiale di prestito, senza alcun rispetto della qualità e della quantità, con una dolce irriducibile violenza e con una persuasiva radicale manipolazione, per un segreto efficace istinto di rinnovata teatralità, in modo da non farne un pretesto di restauro o di modernizzazione, e cioè soltanto allo scopo di stenderlo come materiale di scena in vista di una scrittura scenica diversa [...] (Giuseppe Bartolucci)
  • Una sera, durante una replica della Salomè, gli attori non si presentarono. Il motivo era dovuto al fatto che Carmelo non li pagava, li trattava malissimo e loro per reazione scioperarono. Addirittura, l'attrice che interpretava il personaggio di Salomè, si portò via un misero giradischi che aveva prestato per lo spettacolo. Carmelo quella sera fu costretto a mandare in scena solo una signora che per tutto lo spettacolo camminò a quattro zampe. L'esibizione durò trentacinque minuti e quella volta i critici stranamente scrissero delle recensioni positive. (Giuliana Rossi)
  • Una specie di fine; di fine anticipata del cinema di Carmelo Bene, anche se poi sono venuti altri film, che è questo "non voglio più vedere nulla", questo "Basta", questa fine della luce, questa fine della visione. (Enrico Ghezzi)
  • Una volta sputava in testa ai suoi pochi spettatori. Oggi sulla testa di migliaia di persone declama i versi di Dante dalla torre degli Asinelli. (Vittorio Caprioli)
  • Più sociale nonostante tutto il teatro, più asociale il cinema e con una straordinaria e singolarissima autonomia di linguaggio la televisione. Riconquista della parola e del volto nell'era della più degradata spettacolarità, che ha strappato alla parola il suo potere abusandone e ridicolizzandola, e al volto la sua anima omologando le facce nella faccia unica d'una massa che crede di essere in quanto grida.
  • Questa impossibilità di essere eroi è anche una delle basi del suo teatro, le basi della sua nostalgia di Verdi del "bel canto", della sua impossibilità a sapere che tutto questo, comunque, oggi non ha più senso.
  • Sotto molti aspetti Fellini e Bene portano avanti discorsi assai prossimi, e un raffronto tra le loro opere sarebbe istruttivo: stessa tradizione cattolica, stessa angoscia di fronte alla vita e alla donna, stesso gusto del tutto pieno, del decadente, del soggettivo, dell'esibizionistico, del ripetitivo. Ma le differenze sono altrettanto grandi: soprattutto, Fellini si difende più di quanto non riesca a fare Bene; Fellini cerca di conservare e conservarsi e si difende col gioco, Bene distrugge e autodistrugge; Fellini è assente alla contemporaneità, fermo al passato e al mito dell'infanzia, Bene non ha miti che lo sostengano.
  • A una conferenza stampa gli chiesero se era vero che lui si facesse tutte le attrici. Lui mi guardò e rispose "Susanna no, con lei ho fatto il Car, e la chiamo Romoletto".
  • Due imprinting incancellabili, per la sottoscritta. All'audizione mi disse di portare il monologo della Nina del Gabbiano. Al buio, al Teatro San Genesio, con la sua voce che sembrava quella di dio, a me che tentavo (con uno come lui) di non essere normale, tuonò "stop!!" alla quinta parola, spiegandomi che per decodificare bisogna conoscere il codice, la buona recitazione, e che solo allora puoi scavalcarla e buttarla nel cesso. L' altro fatto che m' ha segnato l' esistenza fu il suo inaspettato darmi una mano durante le prove, quando ognuna di noi sei donne accanto a lui veniva a turno bistrattata. Io stavo per mollare, ma Carmelo mi disse "Mi hai fregato, ragazza. Ho capito che a te è molto difficile umiliarti. Perché sei umile" e m' aiutò anche in considerazione del fatto che io uscivo da un periodo di grande sregolatezza. Cambiai vita solo grazie alla sua fiducia. Era capace di gesti choccanti solo a patto che tu non te lo aspettassi.
  • In effetti nella vita sono stata per lui una partner piena di discrezione e buonumore. Non ho mai fatto parte della schiera delle sue donne sacerdotesse. M' accontentavo di farlo ridere, di rilassarlo. Preferivo fare l'amica. Per lui la donna, diceva, è colei che a un convegno nucleare tira fuori il rossetto. Ho finito per essergli utile anche solo con la voce, tant' è che ha rispettato il mio mestiere di doppiatrice. Giorni fa m' ha detto che non gli faceva paura la morte, "ma così è da fessi" ha soggiunto.

Note

[modifica]
  1. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano, 1998, p. 205. ISBN 88-452-3828-8
  2. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, pp. 115-116.
  3. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 205.
  4. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, pp. 200-201.
  5. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 308
  6. Citato in Pino Corrias, Metti Carmelo dopo la Cena, La Stampa, 3 marzo 1989.
  7. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 123.
  8. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 119.
  9. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 121.
  10. Liliana Madeo, Carmelo Bene minaccia di uccidere il critico che gli ha negato un premio, La Stampa, 10 dicembre 1970, p. 7. URL consultato il 19-11-2010.
  11. a b Linguaggio, su it.youtube.com.
  12. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 199.
  13. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 126.
  14. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, pp. 307-308.
  15. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 230
  16. Da Giuseppe Desa da Copertino (A boccaperta), p. 456)
  17. Citato in RaiNews 24, 16 marzo 2002.
  18. Citato in Roberto Carnero, L'eleganza del «cigno» Van Basten, L'Unità, 18 aprile 2004.
  19. Citato in Christian Raimo, Il corpo e il sangue d'Italia: otto inchieste da un paese sconosciuto, Minimum fax, Roma, 2007, p. 77.
  20. Tratto da "Bravo! Bene!", trasmissione Rai di Marco Giusti – Carmelo Bene è intervistato per il suo Don Chisciotte, di Miguel de Cervantes, con Leo de Berardinis e Perla Peragallo.
  21. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 113.
  22. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 126.
  23. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 245.
  24. Da Pentesilea, p. 1335
  25. Citato ne Duellanti, n. 67, gennaio-febbraio 2011, p. 58
  26. Citato in Pietro Farro, Il tennis è un grattacielo: storie in punta di racchetta, Effepi Libri, 2005, p. 49, ISBN 88-6002-001-8
  27. Citato in Maria Grazia Gregori, "Carmelo Bene: era un uomo del Cinquecento", L'Unità, 12 ottobre 1985.
  28. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, pp. 117-118.
  29. Carmelo Bene - Documentario - Parte Quarta, su it.youtube.com.
  30. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 231.
  31. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, pp. 125-126.
  32. Da Ritratto di signora del cavalier Masoch per intercessione della beata Maria Goretti, pp. 391-392
  33. Da S.A.D.E., p. 293
  34. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 121.
  35. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 126.
  36. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 205.
  37. Da Carmelo Bene – Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, 1998, p. 115.
  38. Video su You Tube della discussione con Gassman.
  39. video su You Tube - a cura di Pietro Ruspoli & Tonino del Colle
  40. a b c d Il Ministero del Turismo e dello Spettacolo, tanto deprecato dall'artista salentino, venne soppresso con il referendum popolare del 15 aprile 1993, vale a dire, un anno prima di questa epocale puntata del MCS.
  41. Nostra Signora de' Turchi, romanzo, p. 22
  42. a b Autointervista di Carmelo Bene fatta a Caffè Letterario, su wuz.it.
  43. Postfazione di Piergiorgio Giacché all'autobiografia Sono apparso alla Madonna nell'edizione Bompiani del 2005.

Bibliografia

[modifica]
  • Carmelo Bene e Giancarlo Dotto. Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano, 1998. ISBN 88-452-3828-8
  • Carmelo Bene e Giancarlo Dotto. Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano, 2005 (1ª ed. 1998). ISBN 88-452-3828-8
  • Carmelo Bene, Autografia d'un ritratto, in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, Lorenzaccio, in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, Credito Italiano V.E.R.D.I., in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, L'orecchio mancante, in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, S.A.D.E., in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, Ritratto di signora del cavalier Masoch per intercessione della beata Maria Goretti, in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, Giuseppe Desa da Copertino (A boccaperta), in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, La voce di Narciso, in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna, in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, L'Adelchi o la volgarità del politico, in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, Hamlet Suite, in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, Pentesilea, in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, 'l mal de' fiori, in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene, Amleto (da Shakesperae a Laforgue), in Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene. l mal de' fiori poema, presentazione di Sergio Fava, Milano, Bompiani, marzo 2000. ISBN 88-452-4447-4
  • Deleuze-Bene, Superpositions, Paris 1979; tr.it. J. Paul Manganaro, Sovrapposizioni, Milano 1978.
  • La voce che si spense, Questa Italia, programma RAI di Daniela Battaglini, commemorante la scomparsa di Carmelo Bene.
  • Umberto Artioli – Carmelo Bene, Un dio assente. Monologo a due voci sul teatro, Medusa ed., Milano, 2006, ISBN 88-7698-051-2
  • Quattro momenti su tutto il nulla, programma televisivo, Rai Due, 2001.

Filmografia

[modifica]

Altri progetti

[modifica]