Ugoni-Longhi

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Ugoni-Longhi
D'argento al leone rampante di nero
StatoComitatus, fascia di territorio che si stende dal lago di Garda al fiume Po, al confine tra le province di Brescia, Mantova Cremona e Bergamo
Casata di derivazioneconti di Sabbioneta, ultimi conti di Parma
Titolimarchesi, conti
FondatoreOlderico, marchese e conte palatino (v. 910-921)
Ultimo sovranoconte Giacomo Casalodi (+1405)
Data di fondazioneX secolo
Data di estinzioneXVII secolo
Data di deposizioneXV secolo
Etniaalemanna
Rami cadetti

Gli Ugoni-Longhi (Ugonidi o Narisii[1]) furono una nobile stirpe di età medievale e di antica origine dotata di titolo comitale, attestata nei secoli dal X al XV e stanziata nel territorio al confine delle attuali province di Brescia, Mantova, Verona, Cremona, mentre i loro ascendenti detenevano possedimenti anche nel Piacentino, Reggiano e Modenese. Gli Ughetti-Longhi furono una stirpe patrizia di Genova di età medievale dotata del titolo di Signori di Scio, attestata nei secoli dal XIV al XVIII e stanziata nel territorio di Genova, mentre i loro ascendenti detenevano possedimenti anche nel mare Egeo.

Origini, ascendenti e loro genealogia

L'Italia nell'anno 1000.

Gli Ugoni Longhi, già secondo alcuni storici locali ottocenteschi, come Odorici e Astegiano[2][3], trassero la loro origine da una stirpe di conti, di origine alemanna, detti a cavallo tra i secoli XI e XII conti di Sabbioneta, più raramente di Desenzano e di Montichiari.

I conti Olderico, Sansone, Leigarda

Questa schiatta ha i suoi capostipiti nel marchese e conte palatino Olderico (vivente nel periodo 910-921), alemanno, e in Leigarda, figlia di Vifredo I, detentrice di beni nel Cremonese, nel Reggiano e nel Modenese, forse imparentata con la grande dinastia comitale, ma nel secolo X in piena decadenza, dei Supponidi, già conti di Brescia[4]. Alla morte violenta del conte Olderico, ribellatosi al re Berengario del Friuli, Leigarda sposò in seconde nozze il conte palatino Sansone, che nel 930 risulta detenere a livello la corte di Asola: è questo il primo indizio della presenza dei conti nell'area della Bassa Bresciana orientale e dell'Alto Mantovano.

Rapporti con i conti del Seprio, i conti Gandolfingi e i marchesi Obertenghi

Secondo A. Conti[4], in origine gli ascendenti degli Ugoni-Longhi sarebbero stati legati strettamente a un ramo della famiglia dei conti del Seprio, di legge salica, ritiratasi nel Cremonese e Bresciano sud-orientale dopo il 961, in seguito alla caduta in disgrazia presso il nuovo sovrano d'Italia, l'imperatore Ottone I. Del resto già il Marchese Olderico era morto nel 921 presso Brescia nel tentativo di rovesciare il regime di re Berengario I: in conseguenza di tale atto di lesa maestà, i suoi discendenti sarebbero stati in seguito privati del titolo di marchesi e conti del Sacro Palazzo, rimanendo solamente conti, ma senza la possibilità di esercitare tale carica in alcuna città.

Medole, pieve di Santa Maria: la chiesa è attestata già dal 1020, all'epoca della presenza sul territorio dei conti Arduini di Parma

Successivamente i progenitori degli Ugoni Longhi si imparentarono probabilmente con altre importanti famiglie di ceto comitale o marchionale: i Gandolfingi, conti di Piacenza e poi di Verona, e i marchesi Obertenghi[4]. Importante per la creazione di un vasto dominio territoriale di tipo rurale, ereditato poi dai vari rami degli Ugoni-Longhi, fu, già secondo le intuizioni di Marchetti Longhi[5], poi avallate da A. Conti[4], il legame creato con i cosiddetti ultimi conti di Parma, viventi secondo legge longobarda, la terza e ultima dinastia che agli inizi del X secolo venne scelta per il controllo di parti periferiche dello smembrato comitato di Parma.

Anche a seguito di tali unioni familiari, gli ascendenti dei conti Ugoni e Longhi tra i secoli X e XI possedevano già un'ampia fascia che dal fiume Po all'altezza della confluenza con l'Oglio sale fino al lago di Garda meridionale, ove poi si radicheranno i rami degli Ugoni Longhi, ma detenevano beni anche nella zona sud-ovest del comitato di Piacenza, e in varie aree discontinue dei comitati di Parma, Reggio e Modena.

Il fiume Po tra Lombardia ed Emilia, nel parmigiano

Sempre a cavallo dei secoli X e XI, alcuni conti, discendenti dal primo matrimonio di Leigarda, effettuarono permute con i vescovi di Cremona, con il ben preciso scopo di radicarsi in modo sempre più compatto in un'unica, anche se vasta, definita area, quella situata lungo il corso del basso fiume Oglio, all'incontro dei tre comitati di Mantova, Brescia e Cremona: i beni dei conti in quest'area erano collocati nelle località di Belforte di Gazzuolo, Casalmaggiore, Spineda, Commessaggio, Marcaria, Correggioverde di Dosolo[4].

La fondazione del monastero di famiglia

Il fiume Oglio nel Bresciano

All'anno 1053 o 1055 risale la fondazione e la dotazione, da parte della contessa Adeleida, moglie del defunto conte Ugo II, possidente in area piacentina e cremonese, di un monastero benedettino ad Acquanegra sul Chiese, intitolato a san Tommaso apostolo, secondo una politica di consolidamento patrimoniale e controllo territoriale tipica dell'aristocrazia dell'alto e pieno medioevo: il monastero sorgeva lungo l'Oglio, nel cuore dei possedimenti dei conti[6].

I conti Vifredo e Bosone II

Ugo e Adeleida, che secondo A. Pallavicino potrebbe essere identificata con una esponente della grande dinastia degli Obertenghi[4], ebbero due figli noti, i conti Vifredo VI e Bosone II. Al primo si deve forse il riattamento, se non la fondazione, di un castrum oggi appunto chiamato Castel Goffredo[4] – ma anticamente Castrum Vifredi[7]-; egli tuttavia, pur detenendo vasti beni nella pianura bresciana sud-orientale, che in seguito passeranno, per via di un'unione matrimoniale, ai conti palatini di Lomello, risulta inserito nella vita cittadina del comune di Piacenza, centro di antiche proprietà dei propri ascendenti: egli sposò inoltre una donna di rango capitaneale locale – primo segno del fatto che i conti Ugoni cominciavano a scendere di grado, accettando di imparentarsi con famiglie di stirpe non antichissima, comitale o marchionale[8]-, e, secondo alcuni storici, rivestì la carica di conte di Piacenza intorno all'anno 1077, forse per volontà dello stesso imperatore Enrico IV[4].

Castel Goffredo, piazza Castelvecchio, che sorge sul luogo dell'antico castello edificato dal conte Vifredo

Il fratello conte Bosone è il primo della famiglia ad essere indicato con il predicato “di Sabbioneta”, importante corte dell'abbazia di Leno poi passata nelle mani dei vescovi di Parma, e da qui ai conti che ne presero il nome: Bosone risulta infatti essere in rapporti vassallatici con il vescovo parmense, essendo designato come suo gonfaloniere, ossia capo della vassallità vescovile: altra prova, questa, del fatto che i conti si stavano abbassando di livello, accettando di entrare alle dipendenze di altri potenti e abbandonando così un precedente rapporto alla pari con essi.

Bosone, indicato anche come “di Montichiari”, riuscì a combinare un doppio legame con una potente famiglia di Parma, quella dei Guiberti, facendo sposare il figlio Alberto con una sorella dell'arcivescovo di Ravenna Guiberto, poi antipapa col nome di Clemente III, e dando in moglie la nipote Adelasia ad un fratello dello stesso antipapa. Appare dunque chiaro, anche tramite altre testimonianze, che il conte Bosone, nel contesto della lotta per le investiture, era schierato decisamente nelle file del partito imperiale. Lo stesso Bosone aveva inoltre sposato, secondo alcune ipotesi, Donella, sorella del conte Uberto di Parma[4].

Rapporti con gli ultimi conti di Parma

Parma, Duomo e Battistero

Proprio da questa unione sarebbe scaturito un importante legame tra due stirpi che avevano entrambe posto solide basi per una ampia signoria territoriale nella fascia tra il Po e il lago di Garda. Donella e Uberto erano figli del conte parmense Arduino, in stretti rapporti, forse anche di consanguineità, con la stirpe marchionale dei Canossa. Presenti con i loro beni in alcune zone del Veronese, Vicentino, Reggiano, Bresciano, vassalli del vescovo di Reggio, i cosiddetti ultimi conti di Parma si radicarono nell'area dell'Alto Mantovano e della Bassa bresciana orientale soprattutto con Uberto I, che disponeva di località, chiese e centri incastellati a Manerba del Garda, Solferino e soprattutto a Medole, e forse anche a Casaloldo; parte di questi beni vennero donati ad enti religiosi, soprattutto l'abbazia di Polirone, o permutati con gli stessi[4].

I Bosonidi

Chiesa di San Tommaso Apostolo (Acquanegra sul Chiese)

Dalla moglie Donella Bosone II ebbe cinque figli, chiamati "Bosonidi":

  • Ugo, detto “di Desenzano”, ma attivo anche a Calvisano, sposato con una donna della stirpe dei conti di Treviso, Matilde, la quale nel 1107 effettuò un importante lascito al monastero di famiglia di Acquanegra: questi coniugi detenevano inoltre beni nella pianura reggiana, come risulta da altre donazioni;
  • Bosone III, che intraprese la carriera ecclesiastica diventando arcidiacono del Duomo di Parma;
  • Uberto, che sposò una Berta, con la quale, stando in Marcaria, siglò alcuni lasciti;
  • Gisla, dopo essersi unita con un Turrisendo, famiglia capitaneale veronese, andò in sposa al conte Alberto di Sambonifacio;
  • Alberto di Sabbioneta, che, al contrario del padre, è uno dei personaggi più importanti al seguito della contessa Matilde di Canossa, in veste di vassallo e di testimone ad atti e convenzioni[4].

I figli di Bosone accentuarono ulteriormente la politica di accentramento patrimoniale nell'attuale zona di confine tra i territori di Brescia, Mantova, Cremona, area che si prestava bene alla fondazione e al consolidamento di un vasto dominatus loci basato su alcuni centri incastellati , per il fatto di essere distante dai rispettivi centri cittadini, e quindi sfuggevole ad un controllo da parte sia degli episcopati che dei nascenti comuni. Anche per conseguire questo scopo, i conti Ugo, Bosone III, Uberto e Alberto intrapresero un'opera di liquidazione delle parti del patrimonio distanti dalla suddetta zona e dunque difficilmente controllabili, soprattutto per mezzo di donazioni ad enti ecclesiastici: è il caso dei loro beni nel Piacentino e nel Reggiano (Gualtirolo, Costamezzana, Campegine)[4].

Paesaggio tipico dell'Alto Mantovano, zona di insediamento dei conti Ugoni e Longhi

I centri invece dell'antica Bassa Bresciana in cui essi risultano presenti sono Desenzano, Calvisano, Redondesco, Asola, Mosio, Mariana Mantovana, Marcaria, Acquanegra, Commessaggio, Fossacaprara e Staffolo di Casalmaggiore, Correggioverde. Ma il migliore quadro dei patrimoni bresciani dei conti ora detti di Sabbioneta all'inizio del XII secolo si può desumere dalla donazione del 1107 al monastero di S. Tommaso da parte della contessa Matilde di Desenzano: in esso, oltre che nelle località appena citate, compaiono beni in San Martino Gusnago, Casaloldo, Ceresino di Asola, Bizzolano di Canneto sull'Oglio, Remedello di Sopra, Castel Goffredo, Casalmaggiore, Ravere di Carpenedolo, Mezzane di Calvisano, Casalpoglio di Castel Goffredo, Montichiari, Calcinato, Lonato del Garda[9][10].

I discendenti dei Bosonidi e i conti di Lomello

Lomello, Complesso romanico

Dopo la generazione dei figli dei conti Vifredo VI e Bosone II, riesce arduo seguire le successive evoluzioni genealogiche della stirpe signorile. In generale si assiste comunque ad una continua ed inarrestabile ramificazione in diverse famiglie, che man mano si rendono sempre più autonome l'una dall'altra, ereditano porzioni sempre più frammentate dell'antico dominio, assumono il nome del luogo principale di residenza[11] La parte di eredità di Vifredo VI sembra essere in gran parte pervenuta nelle mani del conte Ugo III, suo figlio, e poi della contessa Iozolina, figlia di quest'ultimo e dal padre istituita quale erede universale in caso di morte del fratello Raginaldino[4]. Iozolina o Gluzulina andò in moglie a Guglielmo conte di Lomello, facendo così finire nelle mani di questa schiatta comitale larghe porzioni del patrimonio dei conti di Sabbioneta in area bresciana e mantovana.

Della discendenza del conte Bosone II, si sa con certezza unicamente dell'esistenza di un figlio maschio del conte Alberto di Sabbioneta, chiamato Abate e sposato con una Duchessa, forse dei conti di Parma: egli era fra l'altro detentore di beni situati tra Casaloldo e S. Martino Gusnago, poi donati alla cattedrale di Mantova, di altri beni a Gualtirolo reggiano, anch'essi donati all'episcopato mantovano, e di altri ancora in Meletole di Poviglio e Campegine, sempre nel Reggiano. Il conte Abate fu scelto dall'imperatore Federico Barbarossa come giudice e podestà di Parma negli anni 1158-1160, insieme a Bernardo da Cavriago[4], e, nel pieno delle sue funzioni comitali, presiedette un placito che coinvolse il monastero del Polirone. Dal conte Abate dovrebbero prendere la loro origine i conti poi detti di San Martino e quelli di Casaloldo.

Negli stessi anni si colloca l'esistenza dei conti Azzo e Vizolo, fratelli, possessori di beni in Fagnano, nel Veronese, nel 1138[10][5]: essi vanno forse ritenuti figli o comunque discendenti del conte Ugo di Sabbioneta e Desenzano o del conte Uberto di Sabbioneta, cugini dunque del conte Abate. Vizolo è attestato anche nel 1132 come confinante con le proprietà di Abate. Fagnano si trova molto vicino a Isola della Scala, località che nel 1210 è indicata come già posseduta dai conti di Sabbioneta-Montichiari[12]; poiché Isola era una base patrimoniale molto importante dei conti Gandolfingi – che ad essa diedero pure il nome di Insula Comitum -, viene confermato così il legame supposto tra Gandolfingi e Ugoni-Longhi. Azzo e Vizolo, con un loro probabile cugino – Vifredo figlio di Ugo – e con il figlio di Azzo, soprannominato Sineratione, parteciparono ad alcuni atti stesi in Mantova: forse alla stessa famiglia è da ricondurre anche un conte Lantelmo, presente alla concessione di un privilegio ai Mantovani in Pavia da parte del Barbarossa.

L'inizio della frammentazione: i conti di Longhi Montichiari, Asola, Mosio e i conti di San Martino

Redondesco, romitorio di San Pietro e torrente Tartaro, che scorre nel pieno del Comitatus degli Ugoni-Longhi ed è ricordato anche nei documenti del Liber Potheris di Brescia che li riguardano

È possibile però notare già dalla metà del XII secolo una evidente spaccatura nell'antica stirpe degli Ugonidi: in un atto rogato a Montichiari nel 1167 compaiono, come signori titolari della località, solamente i conti Azzo, Vizolo – gli stessi o forse omonimi discendenti dei primi – e Narisio I. I conti discesi dal ceppo dei Sabbioneta dovevano però essere di più; tanto più che alcuni di essi, col nome di conti di San Martino, compaiono in una vicenda di rivendicazioni e lotta condotta contro l'abbazia di Leno e alcuni suoi vassalli per il possesso del bosco di Spineda e di terre tra Asola e Fiesse[13]

In un atto del 1228 si rammenta inoltre la rivalità che si era accesa tra i conti di Montichiari e quelli di S. Martino e Casaloldo, e si ricorda il fatto che in Montichiari erano molti i conti a detenere diritti, ma non i discendenti del conte Abate[12]: si fa dunque strada la possibilità che i conti di San Martino e di Casaloldo siano discesi da Abate di Sabbioneta, mentre quelli che poi verranno chiamati Longhi – e nel 1167 sono presentati come titolari feudali di Montichiari, Asola e Mosio – derivino dai fratelli Azzo e Vizolo.

Genealogia degli Ugoni-Longhi

Note preliminari

La famiglia dei Longhi di Montichiari, Asola, Mosio, Casaloldo, San Martino, Marcaria e altre località, in quanto col tempo essa si divise in diversi rami, fu, secondo molti storici, quella più potente tra quelle dei signori feudali stanziati nel territorio tra Brescia, Cremona, Mantova e Verona[14][5][15].

Matilde di Canossa e l'imperatore Enrico IV

Essa, come anticipato, in particolar modo nel ramo costituito dai conti di Casaloldo, pretendeva di essere stata infeudata nella contea dall'imperatore Ottone II nell'anno 974, quando, secondo la tradizione riportata dal Rossi, era conte di Casaloldo un Arrigo, nominato per l'anno 975, il quale sarebbe quindi stato il primo o tra i primi investiti nel comitato. Tuttavia, non rimangono documenti che provino questa asserzione, tramandataci da alcuni storici e raccoglitori di memorie patrie bresciani e mantovani, ma che forse sarebbe stata espressa la prima volta proprio dagli stessi conti, dopo che ebbero raggiunto un certo prestigio[16].

Dal punto di vista genealogico non è semplice stabilire il legame della famiglia Longhi con altre potenti e celebri della stessa zona e dello stesso periodo, anche a causa delle scarse notizie che ci rimangono di quell'epoca oscura: secondo alcuni essa apparteneva alla stirpe degli Ugoni di Sabbioneta e Desenzano, attestata dal X fino all'inizio del XII secolo, per mezzo di un legame di discendenza dai conti Ugo e Matilde di Desenzano[17].

Altri ne ricollegano direttamente le origini ai conti detti di Lomello, i quali, radicatisi inizialmente a Pavia e in Lomellina, si trasferirono in parte nel territorio a sud del lago di Garda, tra Oglio e Mincio, per ragioni politiche, dove poi si ramificarono ed ottennero investiture imperiali in molti luoghi del contado bresciano e mantovano[18]; per la precisione in realtà non si trasferirono realmente: i Lomello contrassero semplicemente parentela con i conti Ugonidi, a motivo del fatto che ad un certo punto entrambe le famiglie si erano inurbate a Piacenza[4].

Altri ancora vogliono che tale famiglia di conti fosse legata da parentela, o comunque da rapporti di alleanza, con la contessa Matilde di Canossa. Alcuni conti Ugoni partigiani di Matilde avrebbero ricevuto da questa la promessa di numerose terre e immunità oltre che alcuni privilegi, a patto di sostenere la politica della contessa nella lunga guerra con l'Impero. Sarebbe dunque per questa presunta consanguineità o comunque vicinanza con i Canossa, che alla morte della Gran Contessa i conti di Casaloldo furono tra le famiglie che per anni provarono ad entrare in possesso dei beni matildini ceduti alla Chiesa, riuscendo ad occupare diversi castelli dei Canossa, come Gonzaga, Bondeno di Roncore, Nogara, Casaleone[19].

Montichiari, pieve di San Pancrazio, abside e campanile. La chiesa era già esistente all'epoca dei conti Longhi ed è menzionata nel documento che li riguarda del 1167

Altri conti della stessa stirpe invece, come Bosone di Sabbioneta – forse tra le milizie imperiali che si scontrarono trionfando a Volta Mantovana contro le truppe matildiche, nel 1080 -, si schierarono per l'imperatore, e dalla contesa pare che riuscissero a trarre dei vantaggi[4] Ad un certo punto gli Ugoni furono detti “conti rurali” con il nuovo cognome de Longis infine, dopo aver tentato più volte di inserirsi nella vita politica dei comuni di Brescia e Mantova, furono esiliati da queste città.

Fè d'Ostiani molto opportunamente fa notare che si comincia ad avere cenni certi dei conti Longhi solo nel secolo XII. Secondo Fè d'Ostiani Azzone I e Vizolo I sarebbero i personaggi citati in un documento dell'Archivio Capitolare di Verona del 1138, in quanto un tempo detentori di un possedimento a Fagnano, nel veronese, poi rivendicato dai canonici della cattedrale di Verona e da questi acquisito, salvi però i diritti dei due conti fratelli Azzo e Vizolo: da altre notizie sappiamo che i conti di Sabbioneta e Montichiari erano possessori, almeno in parte, di Isola della Scala, non lontano proprio da Fagnano. Lo storico continua ritenendo probabile che costoro avessero un fratello di nome Narisio; questi tre fratelli, o i loro diretti discendenti, che avrebbero avuto ciascuno successione feudale, con annessi poteri di governo, sarebbero forse stati i primi a usare nel loro cognome il nome dei paesi che scelsero di abitare e governare, rimanendo, però, sempre in possesso porzionario comune del comitato o contea. Perciò, Azzone I, o più probabilmente i suoi discendenti, si chiamò conte di Mosio, Vizolo I assunse il nome di conte di Ceresino o Asola e Narisio I di conte di Montichiari[20].

In ogni caso, i conti Longhi stanziati nella zona tra Montichiari e Marcaria erano numerosi, e dal secolo XII in poi, sempre in lotta prima con l'appena nato Comune di Brescia, poi con quello di Mantova per il dominio sul distretto e anche in città, dove spesso e volentieri si trasferivano lasciando le loro residenze rurali e acquisendo cittadinanza tramite contrazione di parentela con le principali famiglie urbane[21].

Ipotesi antiche

Il Lago di Garda visto dalla rocca di Manerba, posseduta da alcuni dei conti

Secondo la teoria più accreditata, la famiglia degli Ugoni-Longhi come la si conosce a partire dal XII secolo sarebbe succeduta nel comitato rurale tra Brescia e Mantova alla contessa Matilde di Desenzano, nuora di Bosone II, e in generale ai conti di Sabbioneta, come vogliono Odorici e Wustenfeld per tutte le diramazioni dei conti rurali bresciani[22]. Tuttavia è probabile che almeno il ramo dei conti Casaloldi e San Martino non sia disceso dai conti Ugo III e Matilde di Desenzano - un predicato di scarsa durata, nonostante ricorra molto nella storiografia bresciana, forse da mettere in relazione con Montichiari -, mentre come ascendenti non avrebbe avuto solo i conti di Sabbioneta, ma anche altri nobili progenitori, come gli Arduini conti di Parma[4].

Nei vari studi dedicati soprattutto ai conti di Montichiari e Casaloldo sono state avanzate molte ipotesi, sulla base delle quali, nonostante le divergenze, sembra ormai assodato che essi possano derivare dai conti di Sabbioneta e dal ramo di questi, i conti di Desenzano, cui i Longhi sarebbero succeduti per eredità o cognazione nei feudi di Montichiari, Asola, Mosio, Casaloldo, San Martino e altri. Non sarebbero invece discesi, ma soltanto imparentati, con un'altra casata di conti rurali bresciani, cioè i conti di Lomello[4].

In particolare, gli autori che scrissero sull'origine di questi conti rurali bresciani, vale a dire Racheli, Odorici, Wustenfeld, Fè d'Ostiani e Marchetti Longhi, sembrano tutti d'accordo nel ritenere che questi conti derivassero per generazione o per eredità da Bosone conte di Sabbioneta. Ma nell'unire genealogicamente i nostri conti con quelli di Sabbioneta non vanno d'accordo e scrivono con molte incertezze. Il Racheli dà la genealogia dei conti di Sabbioneta, radicati nel parmense e nel cremonese, il primo esponente dei quali sarebbe appunto il conte Bosone, vicario imperiale[23]. L'Odorici vorrebbe che da Ugo, detto conte di Desenzano, figlio del suddetto Bosone, siano discesi un po' tutti i conti rurali dell'agro bresciano, ma con la sua genealogia si ferma proprio laddove avrebbe dovuto trarre le conseguenze delle sue asserzioni ed unire la casata dei conti rurali con quella dei conti di Sabbioneta[22]. In ogni caso, gli argomenti che condussero Odorici e lo storico tedesco ad affermare che i conti Longhi discendevano da quelli di Sabbioneta sono rafforzati dalla considerazione che alcuni nomi personali dei conti sabbionetani sono ripetuti nella stirpe dei conti rurali[10][5].

Un altro argomento su cui si regge l'ipotesi di derivazione dai conti di Sabbioneta, è tratto da un importante documento: la donazione, o testamento, fatta nel 1107 al monastero di S. Tommaso di Acquanegra sul Chiese, da Matilde, figlia di Rambaldo conte di Treviso e vedova di Ugone o Ugo III conte di Sabbioneta – Desenzano: esso riguarda le porzioni dei feudi che ella possedeva in Mosio, Asola, Marcaria e altri luoghi, nei quali appaiono in seguito, appena cinquanta anni dopo, come ricordato nel documento del 1167, i conti Longhi di Montichiari[4].

Montichiari, pieve di San Pancrazio

Infatti, vedendo che, posteriormente alla morte di questa contessa Matilde, avvenuta secondo alcuni nel 1114, molta parte dei suddetti beni erano posseduti con diritto feudale dai conti dell'agro bresciano, il Wustenfeld ne trasse la conseguenza che essi provenivano senz'altro dai conti di Sabbioneta e Desenzano. Egli insomma spiegò questo fatto supponendo che i comites de domo Longorum, identificandosi con i comites de domo comitis Ugonis, avessero ereditato questi feudi, ritenendo questo Ugone essere il conte di Desenzano marito di Matilde.

Ecco l'elenco completo di quei luoghi citati nel documento: Redondesco, Marcaria, Mosio, Asola, S. Martino Gusnago, Casaloldo, Bizzolano, Remedello Sopra, Castel Goffredo, Casalmaggiore, Ravere di Carpenedolo, Mezzane di Calvisano, Carpenedolo, Casalpoglio, Montichiari, Calcinato, Lonato, Desenzano, Pradizzo, e tutto ciò che spetta alla porzione di Matilde da questa parte, cioè sulla riva sinistra, dell'Oglio[24].

Fè d'Ostiani mette giustamente in rilievo che il testamento di Matilde parla di feudi “de sua portione” – nelle località enumerate “quidquid inventum fuerit de sua portione” -, il che lascia supporre l'esistenza di altri possessori allodiali o feudali di altre porzioni nelle medesime terre senza bisogno che fossero discendenti dai conti di Desenzano. Il caso non sarebbe nuovo nella storia del Medioevo, che reca non pochi esempi di beni e feudi porzionari tenuti da famiglie fra di loro non parenti, e da conti porzionari di diversa origine che possedevano e governavano un medesimo comitato rurale. Quindi, a possedere il comitato rurale in oggetto erano in realtà famiglie diverse, ciascuna con un suo diritto stabilito proporzionalmente rispetto alla totalità dei feudi della zona. Il Fè d'Ostiani conclude questo suo ragionamento portandolo alle estreme conseguenze: a suo parere il comitato rurale era possesso porzionario di alcune famiglie di conti, ciascuna con origini differenti[10].

Il medesimo storico[25] distingue nettamente i Longhi dai conti di Lomello, pur coincidenti in alcuno dei feudi, perché antagonisti e con nomi diversi; dai conti di S. Martino e Casaloldo; dai conti di Sabbioneta – Desenzano, con i quali i Longhi ebbero in comune solo il possesso porzionario dei feudi allodiali. Tali precisazioni sembrano quanto mai opportune contro il rischio di confondere le quattro casate, anche se, come si è visto, in realtà tutte risultano comunque avere qualche legame di parentela: gli ascendenti, alla lontana, sono gli stessi. Ciò vale in misura molto maggiore per i conti di Sabbioneta – Desenzano, con i quali i Longhi, intrattengono dei rapporti privilegiati di derivazione e parentela molto stretti.

Ipotesi contemporanee

Carpenedolo, pieve di Santa Maria in Carpino, coeva alla presenza dei conti Ugoni sul territorio

Accettando parte delle congetture del Fè d'Ostiani, infatti, è più facile che i Longhi già fossero possessori porzionari degli stessi feudi appartenenti anche ai conti Ugo e Matilde di Desenzano, oppure che si sostituissero iure ereditario o per nuova investitura, e tutto questo non in quanto erano discendenti diretti proprio di Ugo e Matilde di Desenzano, ma semplicemente perché in qualche modo legati da parentela più o meno stretta con i conti di Desenzano, senza essere necessariamente eredi di questi ultimi: infatti, la presenza di due famiglie diverse nei feudi dei medesimi territori, seppure divisi in porzioni indipendenti, potrebbe essere facilmente spiegata col fatto che in realtà quelle due famiglie erano una sola, o meglio, due rami della stessa stirpe; sarebbe così spiegata la presunta contraddizione tra il documento del 1107 e quello del 1167, ciascuno dai quali sembrerebbe assegnare alcune stesse località a famiglie diverse: in questa situazione giurisdizionale porzionaria, i conti non subentrano dal nulla ad accaparrarsi i beni di Ugo di Desenzano, né ereditano beni già donati da quest'ultimo al monastero di S. Tommaso, ma già in partenza i feudi sono in comune e divisi in parti tra i vari rami della stessa stirpe, e ogni ramo gode della sua porzione.

In conclusione, tutto questo non prova che i conti Longhi siano direttamente discesi da Ugo di Desenzano, e abbiano da questo ereditato tutti i beni; tuttavia, indica che quest'ultimo, insieme agli altri conti di Sabbioneta, era sicuramente parente dei Longhi, e che essi discesero, se non proprio da lui, da qualche altro ramo collaterale della stessa famiglia sabbionetana; ne sono prova l'identità dei possessi e il ricorrere in entrambe le casate del nome Ugo.

San Martino Gusnago, Chiesa parrocchiale di San Martino: la sua fondazione come pieve risale all'età longobarda, ed ha contribuito a dare il nome al ramo dei conti di San Martino

Considerando i documenti e i fatti fin qui riassunti, si può concludere che i conti di Montichiari, di Desenzano, di Asola, di Mosio, di Redondesco, di Marcaria, di Ceresino, di Bizzolano, ed anche quelli di Casaloldo e San Martino, ma non quelli di Lomello, fossero in origine una sola famiglia, discendente da un conte Ugone, e chiamati perciò con il nome gentilizio di conti Ugoni. Se alcuni di questi conti, e sembra non tutti – sono esclusi infatti i conti di Casaloldo e di San Martino -, poi venivano chiamati Longhi o Longoni, ciò non indicava una diversa origine, ma piuttosto un soprannome derivante da qualche fatto, o da qualche detto popolare, a noi ignoti, secondo il medesimo meccanismo per cui i Pallavicino – in origine Pelavicino – assunsero proprio questo nome, così come i Cavalcabò, i Lupi, i Malaspina[4].

Una ricerca condotta da Giuseppe Marchetti Longhi, conclusasi con la pubblicazione di un libro tenta di ricostruire in modo alternativo la storia dei conti Ugonidi e del loro comitato. Egli sostiene che il cognome originario fosse Longhi o De Longis – mentre in realtà si tratta di un cognome attestato solo a partire dal XII secolo - e che tale stirpe traesse la sua origine dagli Obertenghi. Secondo Marchetti Longhi, una serie di coincidenze ed indizi giustificano la sua ricostruzione: la medesima professione di legge di Obertenghi e Longhi; l'identità dei possessi di Obertenghi e Longhi nei comitati di Brescia, Mantova, Cremona e Parma; la caratteristica degli Attonidi-Canossa e degli Obertenghi, presente poi anche nei Longhi, dell'uso di soprannomi personali derivanti da caratteristiche fisiche o morali e diventati poi gentilizi; l'evidentissima e prevalente corrispondenza onomastica tra Obertenghi e Longhi secondo la nota legge del ripetersi dei nomi da avo a nipote[5]. Si può dire che recenti indagini genealogiche hanno confermato un legame anche piuttosto stretto tra le origini dei conti Ugoni ed i marchesi Obertenghi; di certo però non si può arrivare ad affermare che i primi derivino direttamente dai secondi[4].

I cognomi "Longhi" e "Ugoni"

Longhi

Quando nel XII secolo si trova, nei più antichi documenti autentici, già formato ed espresso nella sua tipica forma gentilizia il cognome de Longis, differente, sebbene derivatone, dal soprannome Longus - e certamente il cognome della famiglia trae la sua prima origine dall'appellativo individuale o soprannome Longus[26]-, la famiglia appare già nettamente individuata nel suo cognome, nella sua impresa gentilizia del leone rampante, fondamentalmente unica e immutata in tutte la diramazioni dei Longhi[27], nella sua potenza nella Lombardia sud–orientale, e nella non dubbia unità originaria delle diramazioni medesime.

Il fiume Chiese a Carpenedolo: esso scorre nel cuore dei possedimenti degli Ugoni-Longhi, da Calvisano ad Acquanegra, e nel documento dei conti di Montichiari del 1167 si dice che vi si estraevano ghiaia e pietra

In particolare, la famiglia dei Longhi, nei suoi più antichi certi rappresentanti e nel suo nome gentilizio, si presenta per la prima volta a metà del XII secolo coinvolta in una caratteristica scena d'investitura feudale: è l'atto di infeudazione della campagna occidentale di Montichiari agli uomini di quel comune, decisa dai conti Longhi nel 1167[28], in cui troviamo scritto, fra l'altro: “Comites Narisius, Vizolus et Actio de Longhis D. N. Imperatoris Comites, et Comites Montisclari, Asulaoe, Mosij et aliarum terrarum ab Imperatore sibi concessarum”.

Si rivela così, attraverso il suo genuino cognome, cosa piuttosto rara nelle famiglie feudali, per lo più denominate solo dai loro possessi, una famiglia già territorialmente ben determinata, e distinta attraverso un nome di casata, che pur derivando evidentemente da un soprannome personale, ha ormai assunto valore e significato gentilizio[5]. Secondo la denominazione derivata dal luogo posseduto, invece, si riscontrerà con il passare del tempo una scissione: Narisio, negli atti posteriori, anche se probabilmente essi si riferiscono all'omonimo figlio del conte vivente nel 1167, è spesso nominato conte di Montichiari, mentre Vizolo, o il suo omonimo discendente, è detto conte di Ceresino (Asola) e qualche volta di Redondesco, ed Azzone, conte di Mosio.

Altri tre documenti distinguono ancora i Longhi con il loro cognome gentilizio prima che questo, attraverso tutto il periodo della loro maggiore potenza feudale, fosse sopraffatto dalle singole denominazioni di feudo di ciascun ramo, e sono situati tra la fine del secolo XII e la prima metà del successivo: una deposizione testimoniale, un'altra investitura feudale, ed, infine, una menzione di cronaca[5].

  • Il primo documento, detto “processo dei conti di Montichiari”, è una deposizione testimoniale sui diritti feudali dei Longhi in Montichiari in rapporto alle contestazioni giurisdizionali tra il comune di Brescia ed i conti medesimi[29]. In esso i testimoni, vecchi uomini di Montichiari, affermano “se scire predictos comites qui litigant et dicuntur comites Longi”, e che questi stessi sono “comites de domo comitis Hugonis”, e si identificano, nei loro padri e predecessori, con coloro “qui dicuntur comites de Monteclaro”. Questo documento, del 1228, ci fornisce un quadro dello stato di famiglia alla fine del secolo XII e all'inizio del XIII, attraverso il ricordo di tre generazioni: a questa altezza, la famiglia era già distinta in molteplici rami, denominati ciascuno dai vari castelli situati nell'odierno bresciano, mantovano e cremonese che costituivano i feudi principali della famiglia.
Calcinato, Torre civica, tra i possedimenti dei conti Longhi.
  • Il secondo dei documenti menzionati, nel quale è inserita una più antica investitura risalente al 1196, è la vendita, compiuta in Brescia nel 1258 dai conti Longhi di Marcaria, alla comunità di Gargnano sull'alto lago di Garda, delle ragioni, già ottenute con l'investitura suddetta, sulla stessa Gargnano e spettanti “ad eos comites de domo comitis Ugonis et de domo que dicitur comitum Longorum[30]. In effetti, dallo stesso documento sappiamo che nel 1196 il vescovo di Brescia Giovanni Palazzi aveva investito di beni feudali in Gargnano Pizino, Egidio e Vizolo, chiamati semplicemente conti senza altro titolo o predicato.
  • Ancora una menzione dei conti Longhi con il loro cognome gentilizio la troviamo, infine, nel Chronicon brixianum del Malvezzi, a proposito della restituzione del castello di Mosio fatta all'imperatore Federico II di Svevia nel 1246 dai “comites Longi[31]

Da questi documenti appare dunque certo che sotto il cognome gentilizio de Longis, già nel secolo XII, si distingueva nettamente una grande stirpe comitale, o quanto meno, un suo ramo, dominante nel settore sud – orientale dell'antico agro bresciano, tra i fiumi Oglio e Mincio, fino ai confini con il mantovano ed il cremonese, ma estendente le sue propaggini dal Garda al Po[5].

Ugoni

Ecco invece di seguito alcuni documenti in cui compare il cognome “Ugoni”.

  • Nel 1223, il giorno 13 maggio, il comune di Brescia, subentrato nei diritti feudali dei conti rurali, in particolare di quelli di Lomello, fa una descrizione “bonorum que habet vassalli de comune jure Comitum filiorum Comitis Ugonis et Comunis Brixiae”.
  • Nel 1226, il 3 giugno, lo stesso comune divide i vassalli con i conti Ugones: in questo documento, i conti non vengono chiamati con il predicato, che usavano abitualmente, tratto dal nome delle località in cui risiedevano o avevano il centro dei loro interessi, ma sempre con il nome gentilizio di conti Ugoni.
  • In un altro atto, probabilmente dello stesso anno 1226, il conte Enrico figlio del conte Azzone II di Mosio attesta che i conti di San Martino dividevano gli onori con i conti Ugoni[32].
Gargnano, il porto: la località fu concessa in feudo dal vescovo di Brescia agli Ugoni-Longhi
  • Nel processo dei conti del 1228, di cui si è già accennato qualcosa, alcuni testimoni rendono le seguenti dichiarazioni: il primo dice che i conti di Montichiari “dicuntur de Longhis”; il quinto asserisce essere pubblica fama per il territorio bresciano “quod Comites de domo Comitis Ugonis appellantur Comites de Monteclaro”; il sesto attesta che Montichiari fu allodio dei conti, e che in ciò discende da – o si è separato da – “Casalzucco”, cioè Casaloldo; il settimo dice “quod Sabbionaria, Comesatio, Marcaria et Mosus, Redondescus et Asula et Castrum Goffredum et Carpenedolum sunt terrae Comitatus et appellantur de Comitatu et quod illi de domo Comitis Ugonis appellantur Comites de Monteclaro”.
  • Con atto datato 1258, 3 febbraio, Raimondo figlio del fu Corrado, a sua volta figlio del fu conte Gualfredo di Marcaria, a nome anche di Belisenda sua madre, e di Guizzardino ed Antoniolo suoi fratelli, e di Segatore figlio del fu Bonifacio del fu conte Gualfredo suddetto, e di Caracosa di lui madre, davanti al vescovo di Brescia Cavalcano Sala, premessa la concessione feudale del 1196 effettuata dal vescovo Giovanni Palazzi ai conti Pizino, Egidio e Vizolo, vendono le loro ragioni, e specialmente la sedicesima parte di tutto ciò che in Gargnano spettava e spetta alla casa dei conti Ugoni ed alla casa dei conti Longhi[5].

Storia politico-militare degli Ugoni-Longhi

Nel medioevo accadeva spesso che i conti, i vescovi o i nuovi marchesi delle città non avessero piena giurisdizione su tutto il territorio del distretto, ma solo su una parte di esso, quella più vicina ai centri urbani; nel rimanente territorio ai confini del distretto verso le altre città, che rimaneva sguarnito, in quanto il potere cittadino non riusciva ad estendere la sua autorità fino a quelle zone remote, i poteri di governo furono assunti da altre figure, spesso aristocratici locali in possesso di alcuni feudi, alcuni aventi il titolo di conte, duca o marchese, altri invece sprovvisti di tali onorificenze. Nel caso del territorio posto fra le città di Brescia, Mantova, Cremona e Verona, si riscontrano tra i secoli XI e XIII alcuni conti che sono stati per lo più chiamati dagli storici conti rurali bresciani[10].

Lo stato degli Ugoni-Longhi: il Comitatus

Diocesi e contea di Brescia nel medioevo, con l'indicazione delle pievi: i conti Ugoni-Longhi erano stanziati nella sona sud orientale del distretto

Il comitato che i conti Ugoni-Longhi governavano era indiviso: ogni conte aveva un possesso porzionario comune del comitato. È soprattutto a partire dall'XI secolo che i conti dimostrano una certa importanza, come è testimoniato anche da alcuni documenti, che li rappresentano in qualità di protagonisti o testimoni di atti di vendita o di convenzioni. Alcuni di essi godevano di un tale rilievo da essere al seguito di Matilde di Canossa, in qualità di vassalli. Alcuni autori inoltre, tra cui Marchetti Longhi, non sapendo come spiegare il potere che i Longhi avevano intorno al 1100, hanno ipotizzato un loro legame di parentela con i Canossa[33]; altri storici ritengono invece che i Longhi, in un periodo di confusione o di vuoto di potere, cioè alla morte di Matilde di Canossa, si siano impossessati di alcuni beni destinati della Chiesa, vantando diritti di parentela con quella famiglia[34].

Non è semplice stabilire l'origine di questi conti e se appartenessero a una o a più famiglie, poiché mancano documenti sufficientemente esaurienti circa la nascita di queste contee feudali; secondo lo storico locale bresciano Fè d'Ostiani, si possono sicuramente identificare alcuni rami maggiori degli Ugoni-Longhi: i conti palatini di Lomello, dal nome di una località presso Pavia, i conti di San Martino Gusnago e di Casaloldo, i conti Longhi di Montichiari, Asola e Mosio, denominati da alcuni importanti centri tra le province di Brescia e Mantova[10].

La maggioranza degli studiosi sostiene che le varie famiglie, o solo due o una di esse, provengano da un'unica stirpe, quella dei conti di Sabbioneta e Desenzano, perché i loro possedimenti spesso coincidono con quelli di quest'ultimo casato, ed inoltre ricorrono gli stessi nomi personali.

Secondo alcune ricerche condotte nel XIX secolo da Odorici e Wustenfeld, in sostanza poi confermate da più recenti indagini, i Longhi derivano per genealogia dai conti di Sabbioneta, e appartengono, se non vi si identificano, alla grande consorteria feudale degli Ugonidi[22]; la famiglia dei Longhi comprenderebbe poi svariati ulteriori rami, tra cui i più famosi e più potenti sarebbero i conti di Casaloldo, che, ricordati pure da Dante nella “Commedia”, tentarono di acquisire il dominio in Brescia e Mantova. Secondo Guerrini, inoltre, i Longhi avevano legami anche con i bresciani Monti e della Corte: in particolare, la nobile casata bresciana dei Monti sarebbe derivata dai conti di Montichiari[33].

Nel loro complesso, essi discenderebbero o comunque avrebbero dei legami con la grande stirpe obertenga, che dal secolo X dominava l'Italia nordoccidentale: alcuni di essi portavano a sostegno dei loro diritti nel Comitatus rurale una investitura, certamente falsa, loro concessa sui castelli da loro occupati da parte dell'imperatore Ottone II nel 974, come ricompensa di servigi offerti all'Impero, mentre altri vantavano legami di parentela con la casa di Canossa. In questo modo essi dal secolo XI diventarono signori di Montichiari, S. Martino, Casaloldo, Redondesco, Mosio, Mariana, Asola, Marcaria, Sabbioneta, Remedello, Casalmoro, Casalpoglio, Castel Goffredo, Bizzolano, Desenzano, Lonato ed altri minori centri sparsi in queste terre tra il Garda e il Po[5].

Lonato, lapide sulla porta d'ingresso della Rocca Viscontea che ricorda come la fortificazione appartenne anche ai conti Longhi

Questi conti rurali, alcuni dei quali un tempo erano dignitari, vassalli, milites e anche parenti di Matilde di Canossa, nei secoli XI e XII conobbero una forte ascesa signorile e giunsero a spadroneggiare nelle campagne di Brescia verso Mantova e Cremona, estendendosi il loro potere almeno da Lonato e Montichiari a Sabbioneta[34]. La feudalità rurale non riuscì invece ad imporre la propria influenza sulle città di Brescia e Mantova: i vari feudatari preferirono collaborare con il governo cittadino anziché contrastarlo. Essi erano in grado di fornire una adeguata consulenza nell'arte della guerra e potevano garantire l'arruolamento degli uomini loro soggetti.

Tra i feudatari più potenti dell'agro bresciano vi furono proprio gli Ugoni e i Longhi, radicati patrimonialmente del cosiddetto Comitatus, territorio dai confini indefiniti posto tra Brescia, Mantova e Cremona, una sorta di terra di nessuno dove a fatica i tre Comuni cittadini riuscirono ad imporre la loro giurisdizione solo nel corso del secolo XIII. Il Comitatus non era formato da feudi ben distinti, ma ogni famiglia comitale godeva di diritti porzionari in varie località e pur appartenendo ad un unico ceppo originario, quello ugonide, cominciò in seguito a prendere il nome dal luogo dove aveva fissato la sua abituale dimora[35]

Fecero così il loro passaggio sulla scena della storia i conti di Sabbioneta, i conti di Lomello, i conti di San Martino, i conti di Montichiari, i conti di Marcaria, i conti di Redondesco, i conti di Casaloldo, i conti di Belforte, ed altri. L'economia rurale non era sempre comunque in grado di assicurare un adeguato livello di vita a questi signorotti di campagna, ai quali quindi non era data altra scelta che esercitare il mestiere delle armi, oppure conseguire gli honores nelle città. I conti rurali riuscirono così a farsi affidare alte cariche cittadine come la podesteria, il consolato o il comando di truppe nelle guerre contro i comuni confinanti. A far da contrappeso all'aristocrazia feudale in città erano presenti notai, proprietari terrieri inurbati, mercanti, vassalli dell'episcopato, banchieri[36].

I conti e il comune di Brescia

Brescia, Torre del popolo

Tra la fine dell'XI secolo e l'inizio del XII secolo il grande e potente comune di Brescia ha già esteso il suo dominio su quasi tutta la sua diocesi e dal capoluogo gestisce la vita pubblica, contrapposto ai conti di natura feudale, i Longhi, che si sono insediati nel territorio della bassa bresciana e sono venuti in possesso ciascuno di un feudo[37]. Il primo atto di forza compiuto da Brescia, timorosa dell'aumento dell'influenza dei conti sul proprio contado, si registra nel 1125, quando il comune cittadino decise di punirli e ridusse al suolo il loro castello di Asola[38]

Il cognome de Longis appare per la prima volta il 6 aprile 1167, quando cioè i conti Azzo, Vizolo e Narisio, secondo alcuni tra loro fratelli (ma non vi è nessuna prova, molto più probabilmente erano tra loro parenti ma non troppo stretti: si trattava già di una consorteria, cioè di una riunione di rami che si erano differenziati da un'unica famiglia? Oppure solo di solidarietà fra congiunti, con Narisio in posizione suprema?), accordarono privilegi ai loro vassalli di Montichiari, investendo i procuratori e i tutori dei monteclaresi di tutta la campagna ad occidente del paese, allora assai più vasta degli attuali confini, con ogni diritto che su quel terreno i conti avevano ricevuto dall'imperatore. I procuratori di Montichiari accettarono e giurarono di difendere i conti contro qualsivoglia nemico e di prestare lealtà al papa ed all'imperatore[5].

Questa mossa fu probabilmente decisa per avere alleati contro il comune di Brescia. Vi era infatti tra questi conti e il Comune un forte attrito, che si acuì con le lotte dei Comuni italiani contro il Barbarossa. Molti comuni di Lombardia e delle Venezie si erano infatti associati nella Lega Lombarda per mantenere od acquistare la libertà e l'indipendenza, specialmente contro l'impero, ed in tale contingenza i nostri conti, seguaci dell'imperatore, cercavano di farsi amici i loro sudditi per avere da essi cooperazione e soccorso contro la città di Brescia e contro la Lega Lombarda[12].

A quanto pare però poco giovamento ebbero i conti dall'aiuto prestato dagli uomini di Montichiari, anzi forse con la loro mossa accentuarono l'attrito con Brescia, perché l'anno dopo i Bresciani assalirono quel borgo, già attaccato in precedenza almeno una volta, ed in parte lo distrussero. Nonostante tale distruzione tuttavia i conti non abbandonarono Montichiari, mentre nel 1185 papa Lucio III li condannò con una sua bolla a pagar le decime alla Chiesa[12]. I Longhi difatti non si inurbano volentieri, come invece hanno accettato di fare altre casate fondiarie di origine rurale, e non cedono i loro diritti, comportandosi ancora come germanici indipendenti da ogni autorità, che non fosse quella imperiale[39]. I Bresciani tentarono un'altra spedizione contro Montichiari nel 1191, ma dopo vari scontri e dopo aver appiccato il fuoco ad una parte di quelle case, l'esercito del comune dovette retrocedere, forse anche perché in città erano incominciate le prime prove di quella guerra civile che tanto angustiò Brescia nel secolo XIII. Dopo quest'anno i conti non soggiornarono più in Montichiari, ma solo di tanto in tanto venivano in visita forse da Asola o da Mosio, dove sembra avessero la loro abituale dimora[5].

Gli Ugoni-Longhi a Brescia

Nella seconda metà del secolo XII era stimato e potente in Brescia il conte Azzone II di Mosio, eletto console nel 1173, nel 1184 e nel 1192-93, e come tale presente al processo istituito dai messi dell'imperatore a definire le vertenze dei bresciani con i bergamaschi per il possesso di alcuni castelli sul confine[40]. Nel 1203 inoltre i mantovani lo elessero a loro console, insieme al conte Alberto I Casaloldo[41].

Castello Sforzesco, Milano, Fregio di Porta Romana

Secondo Marchetti Longhi lo stesso conte Azzo Longhi compare come terzo personaggio da destra, col leone raffigurato sullo scudo, nel bassorilievo di Porta Romana a Milano, dopo il priore Jacopo del celebre monastero di Pontida, con il ruolo di portabandiera della Lega Lombarda. L'opera, del 1171 o di poco successiva, fu realizzata dagli scultori Gerardo e Anselmo da Milano, come fregio della Porta Romana, ora distrutta, per celebrare il rientro dei Milanesi nella loro città distrutta dal Barbarossa, accompagnati anche dagli alleati Bresciani, ed è oggi conservata al Museo del Castello Sforzesco di Milano. Lo stesso Azzo nel 1173 fu rettore della Lega Lombarda. Secondo alcuni, il leone simbolo del casato comitale di Azzo sarebbe divenuto già all'epoca il simbolo della guelfa Brescia, anche in contrapposizione con l'aquila ghibellina dell'imperatore[5].

Col sorgere del secolo XIII il Comune di Brescia fu colto da una lunga serie di lotte intestine. Poco prima dell'anno 1200 i milanesi chiesero soccorso ai bresciani contro bergamaschi e cremonesi. Il maggior numero dei nobili, o milites, era favorevole al soccorso, mentre la parte popolare, con alcuni nobili, era contraria. Capitanava il popolo Narisio Longhi conte di Montichiari, secondo Fè d'Ostiani figlio di Narisio I vivente nel 1167[10], mentre era capo dei nobili Alberto conte di Casaloldo, fiero e convinto filoimperiale; sotto di lui incominciò la lotta armata fra i due partiti, nella quale i ghibellini del Casaloldo rimasero vinti e cacciati dalla città.

Essi, esuli od estrinseci, come si chiamavano allora, formarono il gruppo che prese il nome di “Società dei Militi”; da parte sua, anche il conte Narisio fondò una società di moderati, detta di San Faustino. La Società dei Militi, dopo aver occupato Rodengo-Saiano, si unì ai ghibellini cremonesi, e si portò a Gavardo; il dissidio allora non terminò se non con la battaglia di Albezzago, o di Calcinato, nell'agosto 1201, con strage dall'una e dall'altra parte, ma alla fine i fuoriusciti poterono rientrare in città.

Nel novembre dello stesso anno, gli inviati dei bolognesi, alleati del comune bresciano, si frapposero fra le parti ed ottennero la pace, in modo che tutti ritornarono in città. Ma quella pace durò poco, perché il conte Alberto, associatosi a Vifredo Gonfalonieri, altra potente famiglia bresciana, si ribellò al comune facendo nascere un altro conflitto d'armi. Capo dei consoli era allora Alberto Brusati, il quale alla provocazione del conte rispose con la forza, e lo obbligò ad esulare nuovamente con i suoi[40].

Forse fu Narisio che nel 1207 invitò l'imperatore Ottone IV di Brunswick, disceso in Italia, ad entrare in Brescia e ad imporre la pace con il richiamo dei fuoriusciti, come infatti avvenne. Nell'anno dopo troviamo il conte Narisio in Mantova, presente con altri mantovani all'atto di concordia fra Mantova e Ferrara. Nel 1211 egli era insieme al conte Alberto Casaloldi presso l'imperatore quale testimone ad un atto imperiale sottoscritto in Capua il 4 marzo, e fu forse in quella occasione che i conti Narisio ed Alberto chiesero ed ottennero dallo stesso imperatore l'investitura o la conferma dei diritti feudali su Gonzaga con tutta la sua corte, le pertinenze, il distretto e l'onore, a patto però che Narisio giurasse fedeltà come aveva già fatto Alberto. Così si legge nel placito del 20 marzo 1212[39].

La pace imposta da Ottone IV fu poco più che un armistizio, perché nuovi dissensi e nuovi assalti partigiani angustiarono la città di Brescia, e se nel 1213 fu conclusa un'altra pace, ciò fu per opera di Alberto di Reggio, vescovo di Brescia. Furono nuovamente richiamati gli esuli, allora detti anche “malesardi”, gli avversari giurarono la concordia, e per assicurare le parti il vescovo volle che, mentre si eleggevano a reggitori della città, per comune consenso, il conte Alberto Casaloldo, capo di un partito, e Iacopo Poncarale, capo dell'altro, si aggiungesse il conte Narisio, quasi a garante della pace[40]; questi, finito il suo incarico, se ne tornò al suo comitato, ed alcuni aggiungono che egli fu di nuovo chiamato a Cremona, come paciere di partiti che si erano là formati. Non si sa dove a quando sia morto Narisio; è certo che nel 1220 era già morto, e che aveva forse lasciati due figli, Federico ed Ugolino[5].

Il bando da Brescia

La lotta dei Longhi con Brescia continuò anche nel ‘200, soprattutto con un importante processo attribuito all'anno 1228, il quale rende chiaro che esistevano delle vertenze tra i conti e quel comune: forse fu proprio in seguito a questo che i figli del potente conte Narisio, ed in generale molti conti Longhi, cominciarono a essere banditi dalla città di Brescia. Essi furono dichiarati ufficialmente traditori di quel comune il 7 maggio del 1240, ed i loro beni di Montichiari, Asola, Mosio, sequestrati e venduti alle comunità rurali, come quella di Asola, in varie fasi, fino al 1258[5].

Brescia, il Duomo vecchio, esempio di chiesa romanica edificata in forma di rotonda

Il Comune di Brescia, infatti, determinato a esautorare ogni forma di giurisdizione aliena e a imporre un efficace controllo sul territorio, attaccò, acquisì o espropriò i centri in cui i conti avevano le loro dimore e la maggior parte dei loro possedimenti, nel corso di una contesa ultrasecolare finalizzata a disarticolare la consorteria comitale. Proprio a metà del secolo XIII Brescia, che già aveva sottomesso Montichiari, inflisse ai tenaci conti rurali un duplice e decisivo colpo, prima con la confisca e vendita delle proprietà che essi avevano in Asola, nel 1240, e in Mosio, nel 1254, e poi con il trattato tra Brescia e Mantova dello stesso, che tracciava, a danno di quella stirpe signorile, i nuovi confini tra i due comuni urbani relativamente alla corte di Mosio[42].

Non è pervenuto l'atto del consiglio cittadino inerente alla confisca, ma il documento del maggio 1240 reca il nome dei conti a cui furono confiscati i diritti feudali e le possessioni. Essi furono: Bonifacio, Enrico, Narisio, Vielmo e Raimondo, figli di Azzone II conte di Mosio; i figli del conte Alberto II di Casaloldo che erano: Martino, Antonio, Bernardo e Valfredo; i figli del fu Narisio II conte di Montichiari, cioè Federico ed Ugolino; i figli di Zilio conte di Redondesco, cioè Vizzardo, Rinaldo ed Uberto. Si confiscarono altresì i beni del defunto conte Azebono, quelli di Gualfredo figlio del fu Pizino conte di Marcaria, quelli di Nantelmo e Zilberto del fu Ugo conte di Redondesco, quelli degli eredi del conte Tebaldo, che in altro documento è chiamato conte di Asola, del conte Negro, del defunto conte Enrico o Federico di Mosio. Furono invece eccettuati dalla confisca gli immobili del conte Guidone, del defunto conte Alberto di Casaloldo e di suo fratello Antonio, quelli del conte Filippo, figlio di Egidio conte di Marcaria, nonché quelli dei suoi nipoti Egidiolo, Federico ed Obizino, figli del già morto conte Azzone III od Azzolino, fratello di Filippo; i beni di tutti costoro non furono toccati perché essi non avevano preso parte agli atti di fellonia[5].

La causa principale di questo bando proclamato da Brescia fu la discesa di Federico II di Svevia per sottomettere l'alta Italia ed i suoi comuni recalcitranti, tra cui Brescia, che allora strinse una nuova lega con le altre città. Fra l'altro l'imperatore nel 1237 giunse fin sotto Brescia per attaccarla. Durante tutta la immane lotta sostenuta dal comune bresciano, bisogna pensare che i conti di Montichiari, Casaloldo e delle altre località di quel comitato, appoggiassero o rinforzassero come rinomati ghibellini l'esercito imperiale contro Brescia, e soprattutto facessero atti di fellonia contro Brescia in Asola e forse altri paesi, e qui esercitassero vessazioni di ogni genere contro coloro che erano fedeli a Brescia[43].

Brescia, palazzo del Broletto: nel sottotetto del palazzo si trovano affreschi che ritraggono la cacciata dei conti Ugoni e Longhi dalla città

Il 14 giugno del 1238 il podestà di Brescia radunò il gran consiglio per dargli notizia di una petizione degli abitanti di Asola, i quali domandavano al Comune bresciano almeno cinquanta militi a difesa degli amici e ad offesa dei nemici, e perché si decretasse che nessuno che non fosse del comune o a favore del comune di Brescia dimorasse più nel castello di Asola, e si prendesse un provvedimento in favore di alcuni giovani di Asola ingiustamente accecati dai conti o dall'imperatore. In questo consiglio il Comune cittadino cominciò a prendere dei fermi provvedimenti contro i conti e i loro seguaci. I consiglieri, si può dire all'unanimità, diedero voti affermativi per la liberazione degli uomini di Asola dal giogo dei conti rurali, come era stato dichiarato nell'assemblea del giorno prima. Uno dei membri del consiglio propose che si dovesse comperare tutto ciò che il conte Zilberto e qualunque altro conte possidente avesse in Asola e sua vicinia, e che fosse tutto venduto agli asolani; un altro consigliere propose di offrire ai poveri fanciulli accecati tanti beni per 200 lire imperiali. Il consiglio approvò le due suddette proposte, insieme a quella del podestà per l'invio dei soldati; ad Asola fu forse anche mandato da Brescia un podestà di fiducia[44]

Brescia, dunque, vittoriosa e stanca dello schierarsi di quei conti contro di essa, con un'assemblea pubblica bandì tutti quelli che si erano comportati da ribaldi verso il Comune, e confiscò ad essi i beni. Da questo tempo in poi i conti non tentarono più di esercitare atti di giurisdizione su Asola, mentre già dal 1237, essi non abitavano forse più a Montichiari, ma appunto ad Asola, come si deduce dai provvedimenti bresciani, a Mosio e a Casaloldo. Lo Zamboni, senza citare la fonte, dice che i conti furono cacciati da Montichiari nel 1220; non si sa se ciò sia accaduto per iniziativa degli abitanti monteclarensi, a causa di questioni insorte, o dei bresciani. Brescia, in seguito all'eliminazione di questi conti, risolse anche la questione dei confini delle rispettive giurisdizioni con Mantova, a Mosio nel 1254: fu allora che, secondo molta storiografia bresciana, lo stemma dei Longhi venne fatto proprio da comune bresciano, salvo il colore, che venne cambiato[45].

Molti di questi conti allora si rifugiarono a Mantova e Cremona; anche nella città di Virgilio però il secolo XIII vide il sorgere di cruente lotte cittadine interne, nelle quali dominarono per quasi tutta la prima metà del secolo i partiti dei marchesi d'Este di Ferrara e dei conti veronesi di Sambonifacio. Diversi gravi episodi provocarono l'esilio di famiglie notabili delle quali alcune, una volta perdonate, rientravano in città, mentre altre rimanevano bandite in perpetuo: tra di esse, anche alcune appartenenti al ceppo dei Longhi come i conti di Marcaria, Mosio e Casaloldo. Anche nel contado ormai queste famiglie feudali erano quasi del tutto scomparse e le poche rimaste, come i Casaloldi, si misero al servizio dei nuovi signori, come i Gonzaga, perché il tempo delle fazioni era definitivamente tramontato[46].

Stando alla ricerca del Marchetti Longhi, alcuni conti Longhi ripararono anche a Bergamo, città, quest'ultima, dove riacquistarono prestigio con Guglielmo de Longis di Adraria, cardinale ai tempi di Papa Celestino V, cancelliere di Carlo II d’Angiò e costruttore della chiesa di S. Nicola in Plorzano (Bg) nel 1309. Morì ad Avignone nel 1311 e fu sepolto in Santa Maria Maggiore di Bergamo, dove tuttora si trova il suo sepolcro[47].

Dopo il 1255, in nessun documento bresciano si accenna più ai conti di Montichiari, di Asola, di Mosio, di Redondesco, di Bizzolano, di Ceresino e di San Martino; lo stesso dicasi anche per quelli mantovani, salvo alcuni rami, come quelli di Mosio, di Redondesco e di San Martino, la cui presenza va comunque progressivamente scemando, non oltrepassando la fine del secolo; non mancano invece notizie sui conti di Marcaria, e soprattutto su quella famiglia che propriamente e in senso stretto si chiamava dei conti di Casaloldo.

I conti a Mantova

Come già osservato, i conti rurali vengono per la gran maggioranza sconfitti ed assorbiti dai comuni urbani, che estendono ben presto il loro potere di governo all'intero territorio della contea; tale conquista si compie in particolare non solo nei confronti dei feudatari rurali divenuti signori, ma anche dei comuni minori del territorio; il che spinge per lo più questi nobili di campagna a tentare la rivincita entro il comune anziché fuori di esso, e ad inurbarsi per affrontare la lotta politica cittadina in concorrenza con le nuove potenti famiglie espresse dalla borghesia mercantile. Questo appena descritto sarà il caso anche dei conti Longhi[48].

Tra le schiatte magnatizie di origine terriera che si inurbarono a Mantova a partire dal XII secolo compaiono anche i conti Ugoni. Essi erano stanziati lungo il confine occidentale del distretto mantovano, soprattutto in territorio bresciano e cremonese. Il Liber potheris communis civitatis Brixiae riporta le numerose transazioni tra il comune di Brescia ed i conti rurali per l'approvazione di questi feudi; erano questi in origine tutti centri appartenenti alla diocesi e al territorio di Brescia, e solo pochi di essi sono tuttora alle dipendenze di questa città.

Mantova, torre del Palazzo del Podestà: i conti Ugoni si inurbarono a Mantova nella seconda metà del XII secolo, ed alcuni di loro ne divennero anche i podestà

Da qui i conti Longhi si erano infiltrati anche nei vicini paesi mantovani, come Marcaria, Campitello, Casatico, San Martino Gusnago e forse Piubega, dando vita ad una consorteria potente e ramificata. Di fatto il comune mantovano prima, la signoria poi, dovettero affrontare, tra la feudalità mantovana, soltanto la resistenza opposta dallo stesso ceppo comitale degli Ugonidi, stanziati al confine con Brescia e Cremona e differenziati in diversi rami[49][50].

Non vi è dubbio che dalla schiatta degli Ugonidi, principalmente insediata nel Bresciano, derivano anche i rami comitali insediati nel Mantovano: i conti di San Martino e di Marcaria, che con i Casaloldo e i Mosio parteciparono per un certo periodo con autorità al governo del comune mantovano[50]

I vari rami di questi conti hanno vaste proprietà consortili: all'inizio del ‘200 a Redondesco metà degli honores è dei conti di S. Martino e l'altra dei figli del conte Ugo V di Mosio (figlio di Azzo di Mosio?) – forse Gippo, Filippo, Gilberto, Lantelmo -, i quali sono presenti anche a Bizzolano. A Mosio, oltre i figli del fu conte Vilfredo Maior, figlio di Pizio di Marcaria, e del conte Ugo V, sono partecipi anche i conti di Casaloldo e di S. Martino; lo stesso avviene per Mariana con il conte Bonifacio di S. Martino. Sotto tale aspetto è esemplare la vendita di Mosio fatta ai bresciani nel 1240, e nella quale sono interessati gli eredi del conte Alberto I, cioè Antonio e Guido di Casaloldo, ed anche Egidio e Filippo di Marcaria. I conti di S. Martino alla fine del XIII secolo – 1295 – possiedono a S. Martino Gusnago la “Selva Corta”, che si estende in direzione di Piubega[51]

Riguardo all'attività politica di questi conti in Mantova, nel 1201 è podestà di Mantova proprio il conte Guelfo di S. Martino, ucciso dai veronesi in battaglia presso Nogarole Rocca. L'anno successivo l'alta magistratura è tenuta dal conte Bonifacio, suo figlio - “1202 comes Bonifatius eius filius” -, mentre nel 1203 saranno consoli i conti Alberto di Casaloldo e Azzo di Mosio, il primo, fatto certo non casuale, appena un anno dopo la sconfitta della sua “parte Brucella” in Brescia: “1202…et eo tempore Bruzella de Brixia fuit desconfita et capta. 1203 domnus comitus Albertus de Casalodo et Azio de Mosio”. Si può notare che negli anni compresi fra il 1197 e il 1203 i consoli o podestà sono scelti spesso nel ceto dei conti rurali[52]. Nel 1217 ecco ritornare come podestà Bonifacio, che già lo fu nel 1202 – “1217 comes Bonifatius de Sancto Martino fuit potestas Mantue”, e nel 1232 la carica è ricoperta dal conte Baldovino o Balbino di Casaloldo, figlio di Alberto I: “1232 comes Balibynus de Casalolto fuit potestas Mantue. Et eo tempore episcopus Guidotus primo venit Mantuam; et cavatum fuit castrum Seravali, et detruncatum fuit dome in broleto”. Balduino era anche valoroso condottiero di armati, e nel 1233 tolse ai veronesi Nogarole, Marchisia, Pontepossero, Isola della Scala e Buartone; nel '34, combattendo contro i cremonesi, il conte Balduino “vulneratus fuit et mortuus est”, come si esprime la cronaca bresciana del Doneda[53].

Nel vivo del periodo più aspro delle contese tra le fazioni guelfe e quelle ghibelline, Mantova, sotto l'influenza della parte guelfa capeggiata dagli Estensi e dai Sambonifacio, guerreggia duramente contro Ezzelino da Romano[non chiaro] e le tradizionali rivali Cremona e Verona, aderenti al partito concorrente. I fuoriusciti ghibellini mantovani, che avevano seguito l'imperatore in varie imprese certamente erano rientrati nel distretto a Marcaria e a Campitello, favoriti non solo dai conti e dai domini locali, ma anche dalla vicinanza di Cremona, e da qui operarono colpi di mano contro i guelfi.

Mantova, a sinistra palazzo del Podestà, al centro palazzo della Ragione, che ospita alcuni affreschi raffiguranti il tradimento di Marcaria da parte di alcuni dei conti del luogo

Infatti, dopo la confisca dei beni ed il bando subito da Brescia, i castelli di Casaloldo, Marcaria e Mosio, a ridosso del distretto mantovano, diventano il centro della reazione dei conti Ugoni: questi restituirono Mosio a Federico II nel 1246, mentre per il territorio di Casaloldo i bresciani incontrarono difficoltà a liberarlo o affrancarlo dai suoi conti. Tra il 1246 e il '48, alcuni di questi conti, i quali, tra tutti i signori rurali, opposero forse la maggiore resistenza, insieme ai ghibellini di altre città, tanto devastarono il territorio di Brescia e Mantova, da costringere questi due Comuni ad unirsi nell'unico scopo di dar loro la caccia.

Ma questi feudatari, più volte messi in fuga, riuscivano sempre a ricomparire, fino a che, rifugiatisi nel castello di Mosio, vi si fortificarono. Sennonché nel 1250 i due Comuni alleati, mantovano e bresciano, furono sul posto, posero l'assedio al forte sull'Oglio, lo espugnarono e lo occuparono, conducendo i difensori prigionieri a Brescia, fra i quali alcuni Casaloldi, che più tardi furono rilasciati; i mantovani uccisero poi fra gli altri anche Rizzardo da Rivalta, capo dei ghibellini di Mantova, bandito da quella città.

Finalmente, dopo questo successo, Brescia portò a termine la sua azione contro i conti rurali, privandoli di ogni giurisdizione che era loro rimasta sul bresciano tra il 1252 e il ‘54, quando furono comprate da quel Comune molte delle ragioni di proprietà dei conti in Mosio, ed approvati gli statuti per il governo di quella comunità: solo allora la lotta poté dirsi compiuta. Fu allora inoltre, in seguito alla delimitazione dei confini della comunità di Mosio, nel '54, che i conti Longhi che vi erano insediati cominciarono a gravitare più decisamente sulla città di Mantova, anche perché erano già stati per la maggior parte messi al bando dal Comune bresciano[54][55]

Arma

Stemma del Comune di Brescia, forse derivato da quello degli Ugoni-Longhi

I conti Longhi, secondo gli storici bresciani, avevano come stemma un leone nero rampante in campo bianco, forse assunto poi dal comune di Brescia nel 1254 o nel 1258, dopo una formidabile lotta, cambiando, però, il colore del leone in azzurro[56].

I principali rami derivati dagli Ugoni-Longhi

Castelli dei conti

Castelli di collina in muratura

Solferino, la rocca costruita nell'XI secolo e detenuta anche dai conti di Parma e poi dai Longhi

Castelli di pianura in terra e legno

Torre quattrocentesca del castello di Remedello Sopra, di origine medievale

Struttura

Lo stesso argomento in dettaglio: Incastellamento e Ricetto.

Accanto a quei castelli di altura posseduti dai conti, fortificati in pietra o laterizio, molti delle quali hanno resistito alle intemperie e ai secoli e sono fortunatamente sopravvissute fino ad oggi – Castelli di Desenzano, Lonato, Montichiari, Manerba, Calvagese, Castiglione, Solferino -, hanno avuto un ruolo rilevante nel controllo del territorio anche i castelli in terra e legno, manufatti che per la deperibilità dei materiali non hanno lasciato traccia di sé, ma che da molti storici sono considerati come i tipici castelli medievali. Tra le fortificazioni in terra e legno vanno annoverate anche le “motte”, le “tumbe” e le “bastie”, presenti anche nel ‘'Comitatus'’ degli Ugoni-Longhi.

Diffusi nel paesaggio della pianura padana, ben oltre il XIV secolo, i castelli in terra e legno si caratterizzavano per la compresenza di tre opere difensive: fossato, terrapieno e palizzata.

Fondamentale era lo scavo del fossato, che, con il suo perimetro chiuso, delimitava l'area stessa del castello e una volta allagato costituiva un ostacolo notevole all'assalto dell'insediamento; con la terra di risulta dello scavo, accumulata e opportunamente battuta e compattata, si formava il terrapieno, indicato con i sinonimi di terraglio – terralium – o aggere – agger -, che recintava come una muraglia l'intero perimetro, eccettuato il varco in corrispondenza della porta, dove un ponte mobile consentiva di oltrepassare il fossato; sopra il terrapieno si infiggeva infine una palizzata rinforzata da assi detta “palancato” o un solido steccato, che serviva da parapetto per i difensori del sito, i quali si avvantaggiavano quindi del riparo e del dislivello altimetrico.

Medole, estratto di mappa del 1777, con evidenziati gli antichi perimetri - costituiti da fossato e terrapieno - del castello, nel medioevo posseduto dagli ultimi conti di Parma

L'apparato fortificatorio di questi castelli era sovente completato, come riferiscono i documenti dei secoli X-XII, da altri manufatti in legno rappresentati da una o più torri di vedetta, variamente denominate “battifredi, butefredi, belfredi” e da postazioni coperte, simili a torrette sporgenti dalla sommità del fortilizio, dette “bertesche”.

Connotata da una semplicità di costruzione solamente apparente, la fortificazione in terra e legno, in verità, si fondava sulla stabilità del terrapieno – risultante dalla coesione delle terre e dall'azione disgregante degli agenti naturali - e sul raggiungimento di un non facile equilibrio fra esigenze difensive – massima ripidità esterna della scarpata e minima interna – e statiche. L'inerbimento e l'impianto di arbusti, in particolare rovi e siepi spinose – “spinata” -, contribuivano a consolidare la scarpata e a contrastarne l'erosione, evitando, ad esempio, il ruscellamento e il dilavamento delle piogge; per stabilizzare il terrapieno si ricorreva anche alla posa, all'interno della massa terrosa, di intelaiature lignee oppure all'inclusione di paglie, giunchi e trecce di canapa.

Materiali poveri e ubiquitari, la terra e il legno, a partire dal XIII secolo, furono gradualmente abbandonati e sostituiti dal mattone e dalle pietre che, resistendo meglio agli agenti atmosferici, al fuoco e alle macchine d'assedio – nel frattempo sensibilmente potenziate e perfezionate -, garantivano più solidità, sicurezza e durata, e avevano il vantaggio di richiedere una minore manutenzione.

Se nella civitas terrapieni e steccati ebbero vita lunga, nel contado la loro longevità fu anche maggiore. Numerose fonti archivistiche attestano, infatti, che nella media pianura mantovana, Bassa Bresciana, cremonese, veronese ed area emiliana, in un'area che in età preistorica conobbe il precedente dei villaggi terramaricoli, vi fu una straordinaria persistenza di alcuni castelli in terra e legno, che con l'integrazione di qualche struttura muraria realizzata nei secoli XIV-XV, rimasero operativi fino al Seicento inoltrato.

Mariana Mantovana, porta quattrocentesca di accesso al castello, nel medioevo centro di potere dei conti Ugoni

È il caso, fino a non molto tempo fa ignorato, dei castelli, posseduti nel pieno medioevo dagli Ugoni-Longhi, di San Martino Gusnago, Piubega, Mariana Mantovana, Casaloldo, Remedello Sopra, Redondesco, Calvisano, Medole, Mosio, Marcaria, Belforte, Sabbioneta, Bizzolano, Canneto.

Contigui tra loro, i centri sopra citati sono parte di un territorio delimitato per lo più a nord dalle colline moreniche, a est dalla Via Postumia, a sud dal fiume Oglio e ad ovest dal Chiese. In questo stesso ambito si trovano anche Asola e Castel Goffredo, che si possono a buon diritto aggiungere all'elenco, perché furono fortezze difese da fossati, terragli e recinti lignei fino a metà del Quattrocento, e solo successivamente dotate di mura.

In particolare, grazie al Liber Potheris di Brescia, nelle sezioni dedicate alla descrizione dei terreni nel Comitatus degli Ugoni, si sa che nella prima metà del Duecento, fossati, terragli e una o più torri munivano i castra dei conti Longhi di Asola, Mosio, Mariana, Castelnuovo, Guidizzolo, Casaloldo, Redondesco.

Il fossato, meglio se colmo d'acqua, era fondamentale per ostacolare l'avvicinamento di eventuali assalitori; esso cingeva un perimetro costituito da un terrapieno – terralium, aggere -, alto qualche metro, realizzato con la terra di scavo del fossato stesso; sul terrapieno venivano piantati una palizzata o uno steccato – palancato -; si costruiva così una specie di recinto sopraelevato che assicurava un vantaggio altimetrico ai difensori del castello, i quali, appostati dietro il parapetto, potevano colpire il nemico frontalmente.

Nella cerchia formata dal terrapieno si aprivano, a seconda delle dimensioni dell'insediamento, una o più porte, varchi che assicuravano l'ingresso mediante un ponte mobile e che di norma erano protetti da una torre – in legno, pietra o mattoni – o da un'antiporta detta barbacane; altre torri solitamente lignee chiamate belfredi, battifredi o butifredi erano innalzate agli angoli del terrapieno; tra torre e torre, lungo la palizzata, venivano costruite talvolta piccole postazioni coperte, anch'esse di legno, sporgenti a balcone – in aggetto -, dette bertesche, munite di aperture a botola – caditoie – da cui lasciar cadere pietre e oggetti contundenti. Dalle bertesche e dalle torri, che assolvevano ovviamente anche a funzioni di vedetta, si potevano bersagliare gli attaccanti che stavano in basso – difesa ficcante e piombante -.

Castello di Redondesco

Economico, di facile realizzazione ma deperibile, un simile apparato di difesa racchiudeva un'area in cui, abitualmente, sorgevano diverse strutture, suddivisibili schematicamente in due tipologie: quelle in muratura e quelle in paglia e legno. Nel gruppo, decisamente minoritario, degli edifici in pietra o mattone, spiccavano oltre alla chiesa, che sovente sorgeva fuori dal castello, abitazioni a due piani, variamente definite “casa solerata, casa copata, sala” eccetera, e talvolta fabbricati più complessi e massicci, dotati di porticato o loggialaubia – che assolvevano contemporaneamente a funzioni abitative e di difesa; questi edifici in cui risiedevano, con familiari e servi, i membri del ceto dominante erano detti casaturris – casatorre – e palatium o palacium.

Il più folto gruppo delle costruzioni in legno e paglia annoverava invece abitazioni di modeste dimensioni e a un solo piano e poi stalle, ovili ed altri ricoveri per animali, mentre le canevae, i magazzini destinati a deposito dei cereali, potevano essere sia in legno che in muratura. Erano le canevae strutture di grande importanza perché nei castelli della pianura lombarda, veneta ed emiliana l'illusione della sicurezza si accompagnava sempre al bisogno di tutelare la risorsa allora più preziosa: i cereali. I documenti rivelano che Mariana, benché fosse un castrum di ridotte dimensioni, contava al suo interno dieci canevae; altrettante ne aveva il castello di Redondesco dove era presente anche una “canevetta” , e un numero imprecisato di questi depositi erano anche nel castello di Mosio, con le abitazioni concentrate nel suburbio.

La popolazione stanziata nei dintorni di un castello vi si radunava per circostanze che si verificavano in caso di guerra: incursioni di nemici, passaggi di eserciti, saccheggi, eccetera. Questi flagelli si abbattevano principalmente sul contado con un carico enorme di violenze e danni – uccisioni, perdita di raccolti, devastazioni di campi e vigneti, incendio di case – e i rustici, per mettere in salvo la vita e i capi di bestiame, riparavano nei centri fortificati[57][58].

Per quanto riguarda le “tumbe”, piccoli rialzi di terreno con funzione difensiva, il toponimo "ad tumbam", quasi sempre in questa precisa forma, ritorna frequentemente nel Liber Potheris di Brescia nelle sezioni dedicate a Mariana, ma non è molto facile da localizzare. Una di queste "tumbe" era forse nelle vicinanze di San Fermo di Piubega, nei pressi del torrente Corgolo, un'altra si trovava forse non lontano dalla chiesa di Mariana[59].

Storia

Casaloldo, torre quattrocentesca di ingresso al castello dei Casalodi

I castelli degli Ugoni-Longhi iniziano ad avere un posto considerevole nelle cronache all'inizio del XIII secolo, grazie alle registrazioni del Liber Potheris di Brescia e alla lotta tra la seconda lega lombarda e l'imperatore Federico II. Nel 1237 Mantova, già rappacificata con il sovrano svevo, aveva mandato all'accampamento imperiale sotto Montichiari, castello ormai perduto dai conti e acquisito da Brescia, fanti e balestrieri, per cui forse era divenuta anche più facile la precedente presa di Carpenedolo e Casaloldo, e per cui l'episcopato bresciano era da oriente a occidente in balia del vincitore: infatti già prima dell'assalto e della distruzione di Montichiari, i contingenti reggiani, parmensi e perfino saraceni, alleati dell'imperatore, condotti dal cittadino di Parma e podestà di Reggio Manfredo da Cornazzano, tenace partigiano imperiale, scorazzavano, nell'avanzata in direzione di Brescia, per queste terre bresciane.

A Montichiari i movimenti di queste truppe, che facevano bottino anche a spese degli alleati, erano stati certamente preceduti dall'eco drammatica della scia di rovine che si erano lasciate alle spalle con l'attacco e la capitolazione dei castelli di Goito, Guidizzolo, Redondesco e Mosio – questi ultimi due detenuti dai Longhi -, e la distruzione dei vicini fortilizi di Casaloldo, Castelnuovo e Carpenedolo – altri luoghi in cui erano presenti beni dei conti.

Il 5 ottobre, infatti, dopo un breve assedio, le armate imperiali misero a ferro e fuoco i castelli di Carpenedolo, difeso dal capitano bresciano Ardizzone Poncarali, e Casaloldo, sia quello dei conti, che quello fondato dal Comune di Brescia, cioè Castelnuovo:

«Parmenses et Cremonenses iverunt in servitio Imperat. Et transierunt flumen Lollii, et destruxerunt Episcopatum Brixianorum…et Castrum Guizoli Mantuanorum…Et stando ibi, fecit Imperator pacem cum Mantuanis, ita quod miserunt pedites et balesterios…in obsidione Montisclari, et rupaverunt domos Burgi Montisaclari. Et die quinta intrante Octubri Rexani, per se, sine alio exercitu, stando ad Carpinetulum ceperunt; et castrum Casalodoli ceperunt, et combusserunt…predicti Rexani sine aliquo adiutorio supradicta duo castra»

Si può facilmente immaginare come, in quegli anni 1236-37, a causa del passaggio dell'esercito ghibellino, i territori del Comitatus di Mosio, Redondesco, Marcaria, Casaloldo, Carpenedolo venissero saccheggiati, i villici spogliati dei loro beni e molte case incendiate; per molto tempo questi borghi dovettero risentire dei dolorosi effetti di questa calamità. Dalla narrazione degli eventi sembrerebbe che i centri della contea degli Ugoni e dei Longhi abbiano opposto una certa resistenza agli invasori, anche se ciò non è detto da nessuna parte, se non per Montichiari, che doveva però essere già passato sotto il completo controllo di Brescia; in ogni caso, non così però ha giudicato il comportamento dei conti il comune bresciano – anche perché la resistenza potrebbe essere stata opposta dalle sole comunità rurali, magari appoggiate dai comuni cittadini -, dato che poco dopo – a partire dai provvedimenti presi per Asola nel maggio 1240 - essi sarebbero stati tacciati di fellonia[60].

Montichiari, castello Bonoris, che sorge sulla collina un tempo occupata dal vecchio castello dei conti Longhi

Si riporta qui, nella versione italiana la più particolare cronaca dell'incendio e della distruzione dei castelli di Casaloldo, Carpenedolo, Montichiari, vale a dire un brano del Memoriale Potestatum Regiensium, scritto da un anonimo reggiano.

«Anno 1237. Il Signor Manfredo Cornazzano, cittadino di Parma e Podestà dei Reggiani…nel mese di settembre con le milizie equestri, si pose in servizio dell’Imperatore Federico; a questo si unirono i Parmigiani e i Cremonesi con i loro carrocci, e, passato l’Oglio a Bozzolo che era dei Cremonesi, distrussero l’episcopato bresciano, e presero i castelli mantovani di Redondesco, Guidizzolo e Goito. Qui stando, l’Imperatore fece pace con i Mantovani, i quali mandarono in suo aiuto fanti e balestrieri all’assedio di Montichiari, bruciando e devastando le case di questo borgo. Il giorno cinque dell’entrante Ottobre, i Reggiani da soli, senza altro aiuto, stando a Carpenedolo, lo presero, presero anche il castello di Casaloldo, e sempre essendo soli, bruciarono questi due castelli. Il sei dello stesso mese, l’Imperatore unitamente ai Reggiani, assalì il castello di Montichiari. Furono ospitati in un luogo vicino al Chiese presso Calcinato. La domenica successiva, giorno undici di Ottobre, i Monteclarensi si prepararono alla battaglia, e nel seguente giorno l’esercito imperiale con i Reggiani circondarono da ogni parte quel luogo, operando con mangani e trabucchi. Il venti gli abitanti di Montichiari si arresero, e furono condotti in carcere. Nell’esercito di Federico erano molti Saraceni[61]

Bohmer, riguardo alla presa di Casaloldo e Carpenedolo da parte delle armate reggiane, scrisse: “I Reggiani, usciti da Goito, non marciarono con l'esercito imperiale, ma prima andarono verso sud e conquistarono solo Casaloldo, mentre essi si sarebbero riuniti solamente in seguito con l'esercito principale che stava a Carpenedolo”. Dunque il lunedì 5 ottobre 1237, le milizie ghibelline dei Reggiani, guidate dal loro podestà Manfredo Cornazzano, si gettarono prima su Casaloldo, e in seguito si diressero a nord verso Carpendolo, prendendo e distruggendo con il fuoco i castelli di entrambe le due località.[62][63]

I contingenti reggiani al servizio dell'imperatore, nel settembre del '37, transitarono, nella marcia verso Brescia, a un passo da Castel Goffredo. Avvertiti dal clamore degli eventi che si consumavano alle porte del territorio asolano e castellano e temendo il peggio, la maggior parte dei contadini di Asola e Castel Goffredo e degli insediamenti sparsi nelle campagne limitrofe avranno certamente trovato rifugio dentro alle rispettive fortificazioni, e vi saranno rimasti per diverse settimane, fino alla cessazione delle operazioni militari.

Le cronache e i documenti di quel periodo non includono mai Castel Goffredo tra gli insediamenti coinvolti in eventi bellici; ciò, al di là dell'eventuale carenza delle fonti, può essere attribuito, almeno in parte, al fatto che nel Comitatus degli Ugoni e Longhi, che esercitavano la loro signoria su quella stessa zona, Castel Goffredo ebbe un ruolo secondario rispetto a Casaloldo, Asola, Montichiari, Mosio, Redondesco e Mariana, castra bresciani, nei quali, oltre alla mantovana Marcaria, i conti avevano le loro dimore e la maggior parte dei loro possedimenti[64][65].

Il monastero dei conti

L'abbazia di San Tommaso, ora scomparsa, era situata nel comune di Acquanegra sul Chiese (Mantova) e fu fondata dai benedettini presumibilmente nell'XI secolo, per volontà degli ascendenti dei conti Ugoni, in particolare della contessa Adelasia, moglie di Ugo II. Ciò che rimane oggi del complesso sono la chiesa di San Tommaso Apostolo, ricostruita parzialmente nel XVIII secolo, e il campanile romanico con interventi seicenteschi. Era il centro monastico più importante del territorio, assieme all'abbazia di Leno e all'abbazia di San Benedetto in Polirone.

L'esistenza del monastero è provata nel 1053 o 1055, perché proprio in uno dei due anni esso riceve la donazione di beni dalla contessa Adelasia, che probabilmente doveva fungere anche da dotazione iniziale per l'abbazia. Altre donazioni sono effettuate sempre da parte di esponenti della famiglia degli Ugonidi sotto l'abbaiato di Pietro, negli anni dal 1104 al 1111[66], mentre sotto l'abbaziato di Martino, il papa Innocenzo II concede la libertà di elezione dell'abate, che viene consacrato dal Santo Padre. In questo modo l'abbazia di San Tommaso diventa autonoma dal potere episcopale.

Tra le concessioni di beni, il monastero nell'anno 1107 fu favorito da un'amplissima donazione effettuata da Matilde, figlia di Rambaldo conte di Treviso e moglie di Ugo conte di Desenzano, di terre, castelli, corti e diritti, che ella possedeva in Desenzano, Redondesco, Marcaria, Mosio, Asola, Castel Goffredo e molti altri luoghi tra l'Alto Mantovano e la Bassa Bresciana orientale[67][68].

Acquanegra, particolare del muro perimetrale della chiesa abbaziale San Tommaso

Nel processo dei conti Ugonidi di Montichiari dell'anno 1228, si apprende che circa 400 Piò di terra col sito di Monterotondo, presso Montichiari, erano stati ceduti dai conti all'abate di Acquanegra ed ai Lavellongo, famiglia bresciana[69].

Nel corso del secolo XII l'abbazia ottenne privilegi sia papali sia imperiali. Dalla documentazione conservata e conosciuta si deduce che il monastero non apparteneva alle grandi famiglie di abbazie riformate, ma era isolato.

L'edificio della chiesa monastica romanica, che attualmente ha la funzione di parrocchiale, è a tre navate. La torre campanaria che s'innalza aderente a questa chiesa verso nord è invece un bel monumento tardo-medievale. L'edificio sacro è quanto attualmente rimane dell'abbazia di San Tommaso. Buona parte dei muri perimetrali sono originali, ma la facciata, le cappelle laterali, il campanile e la zona absidale sono frutto di rielaborazioni successive.

All'interno della chiesa vanno segnalati degli interessanti affreschi romanici, che la percorrono lungo tutto il suo perimetro; essi sono ora solo parzialmente visibili: le cadute antiche di intonaco, l'inserimento delle volte, delle finestre, dell'organo e la stesura successiva di intonaco hanno reso frammentario l'insieme. Gli affreschi, per tecnica esecutiva e per colori, sono divisibili in due cicli: uno più antico, sull'arco trionfale e sull'arco esterno del presbiterio, e un altro, immediatamente successivo e comprendente l'aula della navata centrale. Da ricordare anche frammenti di decorazione musiva rinvenuti sotto l'attuale pavimento delle navate.

Gli Ugoni non comitali

Lo stesso argomento in dettaglio: Ugoni (famiglia).
Probabile stemma degli Ugoni non comitali

Fè d'Ostiani osserva un fatto strano, che cioè mentre i conti rurali erano ancora potenti, viveva in Brescia almeno un'altra famiglia Ugoni, forse anch'essa divisa in rami, e pure essa di nobile schiatta, feudataria del vescovo in Gardone Riviera, su quella riviera del Garda in cui erano infeudati anche i conti di Marcaria, di Redondesco, di San Martino, e forse anche alcuni dei conti di Casaloldo. Da un processo del 1215 si evince che fin da allora il possesso feudale di Gardone da parte dei nobili Ugoni era considerato antico.

Hanno forse questi Ugoni cittadini di Brescia la medesima origine dei conti rurali, anch'essi chiamati Ugoni? Non si hanno molti documenti né fatti storici che possano aiutare a rispondere a questo quesito. Lo stesso Wustenfeld, parlando delle famiglie bresciane Ugoni, sia quelle comitali, sia quelle non comitali, le chiama enigmatiche[70]. È probabile che gli Ugoni che si ritrovano contemporaneamente ai conti Longhi ne siano probabilmente ben distinti, in quanto i primi erano ab antiquo residenti in città, cittadini di Brescia e sprovvisti del titolo comitale.

Altri però, come Castagna e Predari, definiscono gli Ugoni non comitali un'antichissima famiglia bresciana derivata proprio dai conti rurali che signoreggiarono il Comitatus tra Brescia, Mantova, Cremona e Verona, in forza di investiture imperiali dal X al XIII secolo. In seguito, resi inoffensivi dai governi comunali delle suddette città, i conti Longhi finirono inevitabilmente per inurbarsi, anche se spesso controvoglia, ed a Brescia in particolare alcuni di loro, abbandonato il titolo comitale, avrebbero dato origine agli Ugoni cittadini bresciani. Questi Ugoni non comitali furono consoli, capitani, ambasciatori per conto del Comune bresciano, e podestà in alcune città italiane.

Lo stemma degli Ugoni non comitali – d'argento a tre fasce di nero, oppure fasciato di nero e d'oro, col capo d'oro carico di un'aquila di nero, coronata del campo[71] – per alcuni era molto simile all'antico stemma dei Gonzaga[72].

I Patrizi di Genova Longhi poi Ughetti poi Vegetti

A Genova, la numerosissima famiglia Longhi sarà una delle sedici famiglie della Maona di Chio (Scio), isola da loro conquista nel 1346. Daranno illustrissimi discendenti tra i quali Giovanni Longo Giustiniani, solo difensore presso l'imperatore bizantino al momento della caduta di Costantinopoli (1453).

Note

  1. ^ Giancarlo Piovanelli, Casate bresciane nella storia e nell'arte del medioevo, Montichiari, Zanetti, 1981, SBN IT\ICCU\UFI\0438319.
  2. ^ Odorici, voll. IV, V.
  3. ^ (LA) Lorenzo Astegiano (a cura di), Codex diplomaticus Cremonae, Augustae Taurinorum, f.lli Bocca, 1895-1898, SBN IT\ICCU\SBL\0482346.
  4. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u Conti
  5. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p Marchetti Longhi
  6. ^ C. Violante, La Chiesa bresciana nel medioevo, in Giovanni Treccani degli Alfieri (promossa e diretta da), Storia di Brescia, Brescia, Morcelliana, 1963, SBN IT\ICCU\RAV\0147626.
  7. ^ Vignoli, Cobelli
  8. ^ Menant
  9. ^ Odorici, vol. V
  10. ^ a b c d e f g Fè d'Ostiani
  11. ^ Menant
  12. ^ a b c d Bonaglia
  13. ^ Controversia tra il monastero di Leno e i conti Longhi e San Martino per il possesso di alcuni terreni tra Fiesse ed Asola: vengono convocati nella chiesa di Fiesse Azzone II per la famiglia dei Longhi e Girardo per i San Martino, i quali giurano di accettare come arbitri della questione i rappresentanti del comune di Brescia. Fiesse, 16 aprile 1182. Gli arbitri bresciani della precedente controversia si riuniscono per la seduta definitiva a Fontanella ed in presenza di parecchi testimoni sentenziano che le ragioni dell'abate di Leno sono fondate. Fontanella Grazioli, 15 maggio 1183: Bonaglia
  14. ^ Fè d'Ostiani, p. 21
  15. ^ Piovanelli, Casate bresciane, 1981.
  16. ^ Casaloldo nel tempo, 2002, p. 28.
  17. ^ Casaloldo nel tempo, 2002, pp. 28-29
  18. ^ Fè d'Ostiani, p. 22
  19. ^ Casaloldo nel tempo, 2002, p. 29.
  20. ^ Fè d'Ostiani, pp. 23-24
  21. ^ pp. 15, 18, 20-21 A. Bertuzzi, Storia di Casaloldo, studio inedito, Asola, 1978.
  22. ^ a b c Odorici, vol. IV, con Tavola genealogica
  23. ^ Antonio Racheli, Memorie storiche di Sabbioneta. Libri 4., Casalmaggiore, tipi de' F.lli Bizzarri, 1849, SBN IT\ICCU\LO1\0111402.
  24. ^ Odorici, vol. IV, p. 222, nota 4.
    «Actum est hoc in loco Descenzano feliciter. Anno D. 1107, octava die Julii. Ind. XIV.»
  25. ^ Fè d'Ostiani,  pp. 5, 18 e seguenti
  26. ^ Marchetti Longhi, p. 99
  27. ^ Casaloldo nel tempo 2002, pagg. 61-63
  28. ^ Bonaglia, pp. 29-33
  29. ^ Documento riportato e tradotto in Bonaglia,  pp. 237-255 e commentato pp. 46–53
  30. ^ Documento riportato in Marchetti Longhi, p. 287.
  31. ^ Malvezzi, Chronicon brixianum, in Muratori, 1729, vol. XIV, col. 819.(LAIT) Giacomo Malvezzi, Chronicon Brixianum ab origine urbis ad annum usque 1332. auctore Jacobo Malvecio, nunc primùm in lucem effertur e manuscripto codice co: Jo: Jacobi de Tassis patricii Bergomensis, in Ludovico Antonio Muratori, Rerum Italicarum scriptores ab anno aerae christianae quingentesimo ad millesimumquingentesimum, quorum potissima pars nunc primum in lucem prodit ex Ambrosianae, Estensis, aliarumque insignium bibliothecarum codicibus. Ludovicus Antonius Muratorius serenissimi ducis Mutinae bibliothecae praefectus collegit, ordinavit, & praefationibus auxit, nonnullos ipse, alios vero Mediolanenses Palatini socii ... Cum indice locupletissimo, vol. 14, 1729, SBN IT\ICCU\RAVE\000065.
  32. ^ Fè d'Ostiani-Cazzago, Liber potheris, 1899.
  33. ^ a b Marchetti Longhi, Il cardinale Guglielmo de Longis, 1961
  34. ^ a b Casaloldo nel tempo, 2002.
  35. ^ Roberto Navarrini, Istituzioni e lotte politiche. Il comitatus bresciano nei secoli XII e XIII, in Maurizio Pegrari e Ovidio Capitani, Arnaldo da Brescia e il suo tempo, altri, Brescia, Fondazione Banca credito agrario bresciano-Istituto di cultura Giovanni Folonari, 1991, SBN IT\ICCU\MIL\0060849.
  36. ^ G. Piovanelli, Casate bresciane nella storia e nell'arte del medio evo, Montichiari, 1981.
  37. ^ Bonaglia, Storia di Montichiari, 1991; Casaloldo nel tempo 2002.
  38. ^ Marchetti Longhi, Il cardinale Guglielmo de Longis, 1961; Casaloldo nel tempo 2002.
  39. ^ a b Piovanelli, Casate bresciane, 1981.
  40. ^ a b c Odorici, voll. VI, VII
  41. ^ Vaini, Dal comune alla signoria, 1986.
  42. ^ M. Vignoli, Casaloldo, 10 maggio 1509. Gli antefatti, il castello, la battaglia, in Vignoli 2009[che libro è?].
  43. ^ Fè d'Ostiani, I conti rurali bresciani, 1899
  44. ^ Piovanelli, Casate bresciane, 1981, pp. 34, 36; Liber Potheris, 1899.
  45. ^ Fè d'Ostiani, I conti rurali bresciani, 1899, pp. 21-27, 38-39.
  46. ^ Piovanelli, I podestà bresciani, 1977, pag. 19-21.
  47. ^ Castagna-Predari, Stemmario mantovano, 1991-93, vol. I, pagg. 9-11.
  48. ^ Vittore Colorni, Periodo comitale e periodo comunale (800-1274), collana Il territorio mantovano nel Sacro Romano Impero, vol. I, Milano, Giuffrè, 1959, pp. 69-77, SBN IT\ICCU\SBL\0522081.
  49. ^ Vaini, Dal comune alla signoria, 1986, pagg. 144-145
  50. ^ a b (LAIT) Roberto Navarrini (a cura di), Liber privilegiorum comunis Mantue, Mantova, Arcari editore, 1988, pp. 18, 39, n. 23-24, SBN IT\ICCU\PUV\0013804.
  51. ^ Fè d'Ostiani-Cazzago, Liber potheris, 1899; Vaini, Dal comune alla signoria, 1986.
  52. ^ Breve cronaca di Mantova, 1968, pagg. 30-32.
  53. ^ Fè d'Ostiani, I conti rurali bresciani, 1899, pag. 36; Breve cronaca di Mantova, 1968, pagg. 30-32.
  54. ^ Fè d'Ostiani, I conti rurali bresciani, 1899, pag. 41
  55. ^ Cesare Chizzoni, Marcaria: frammenti di storia medioevale, Cremona, Turris, 1987, p. 52, ISBN 88-85635-96-2, SBN IT\ICCU\CFI\0104982.
  56. ^ Così è disegnato anche nell'opera manoscritta sulle famiglie mantovane di Carlo D'Arco, e riprodotto in Castagna-Predari, 1991-93, vol. II, pag. 282, n. 285; in tal caso, però, l'arma è attraversata nella porzione mediana da una fascia scura contenente tre stelle chiare, che copre in parte il corpo del leone. Cfr. Piovanelli, I podestà bresciani, 1977, pag. 20.
  57. ^ M. Vignoli, "Fannovi fossi e palancati e muri", in Guerre, assedi, battaglie. Fortificazioni mantovane, bresciane e cremonesi alla prova del fuoco (secc. XIII-XVIII), Asola, 1998
  58. ^ Aldo A. Settia, Castelli e villaggi nell'Italia padana: popolamento, potere e sicurezza fra 9. e 13. secolo, Napoli, Liguori, 1985, ISBN 88-207-1211-3, SBN IT\ICCU\CFI\0071252.
  59. ^ Fè d'Ostiani-Cazzago, Liber Potheris, 1899, coll. 215-218, 221.
  60. ^ A. Ragazzi, Redondesco, Mantova, Alce, 1960, p. 27, SBN IT\ICCU\LO1\0349897.
  61. ^ Anonimus Regiensis, Memoriale Potestatum Regiensium, in Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, vol. VIII, col. 1104, anno 1237.
  62. ^ (DE) Johann Friedrich Böhmer, Regesta Imperii, 1198, 1272,[cosa è?], vol. V, Innsbruck, Wagner, 1881-1882, pp. 456-458, SBN IT\ICCU\MIL\0018350.
  63. ^ Il giorno, lunedì, in cui avvenne questo fatto, si ricava dalla narrazione di altre cronache contemporanee: Emilio Spada e Eugenio Zilioli, Carpenedolo: nuova storia, Carpenedolo, Comune, Biblioteca comunale, 1978, pp. 83-85, SBN IT\ICCU\SBL\0329444.
  64. ^ Antonio Besutti, Storia di Asola, Mantova, Alce, 1952, pp. 168-169, SBN IT\ICCU\LO1\0370743.
  65. ^ Vignoli, Cobelli, pp. 24, 27
  66. ^ Donazione del conte Alberto I figlio di Bosone II di Sabbioneta all'Ospitale di S. Salvatore nella corte di Mosio, sottoposto al monastero di Acquanegra, dei beni che possedeva nel territorio di Acquanegra, dell'anno 1104, 1º giugno: Odorici, vol. VI, documento CXI, pp. 13-15
  67. ^ Odorici, vol. V, documento XXIII, pp. 84-85
  68. ^ Conti, p. 33
  69. ^ Odorici, vol. VIII, documento CCLXXXVIII, pp. 125-132
  70. ^ Fè d'Ostiani, pp. 48-53
  71. ^ Lombardia Beni Culturali. Ugoni., su lombardiabeniculturali.it. URL consultato il 3 ottobre 2015 (archiviato dall'url originale il 5 marzo 2016).
  72. ^ Castagna-Predari, Stemmario mantovano, 1991-93, vol. III, pagg. 203-204; vol. II, pag. 53.

Bibliografia

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  • Mario Vaini, Dal comune alla signoria: Mantova tra il 1200 e il 1328, Milano, F. Angeli, 1986, SBN IT\ICCU\CFI\0015664.
  • Mariano Vignoli e Giancarlo Cobelli, Da terra aperta a ben intesa fortezza: le mura e le fortificazioni di Castel Goffredo, Castel Goffredo, Mantova, Publi Paolini, 2010, ISBN 978-88-95490-10-6, SBN IT\ICCU\PMI\0010105.
  • M. Vignoli, Fannovi fossi e palancati e muri, in Guerre, assedi, battaglie. Fortificazioni mantovane, bresciane e cremonesi alla prova del fuoco (secc. XIII-XVIII), Asola, 1998.[libro irreperibile]

Voci correlate

Collegamenti esterni