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Morte di Benito Mussolini

cause della morte del dittatore fascista italiano

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Template:Fascismi La morte di Benito Mussolini, capo del fascismo (e, al tempo, della Repubblica Sociale Italiana), avvenne in circostanze non ancora del tutto accertate. Non c'è chiarezza sulle modalità dell'esecuzione di Mussolini e Claretta Petacci intorno al 28 aprile 1945, nei pressi di Giulino di Mezzegra, circa 20 km a sud di Dongo: la circostanza continua ad alimentare polemiche e congetture tanto fra i simpatizzanti del fascismo, quanto fra gli oppositori, mentre fra gli storici e i giuristi si dibatte ancora, oltre che sulla qualificabilità dell'atto come esecuzione di una condanna a morte comminata dal CLNAI o come semplice atto d'impulso, sugli eventuali moventi specifici e sugli eventuali mandanti.

Fra gli storici non mancano posizioni antitetiche circa alcuni punti cui si attribuiscono spiegazioni affatto diverse, a partire dal motivo del viaggio dell'autocolonna su cui il dittatore fu catturato, che alcuni vogliono in fuga per la Svizzera, per altri era un semplice ripiegamento verso la Valtellina, mentre per altri doveva recarsi appositamente ad un appuntamento proprio a Dongo[1].

Ricostruzione storica

 
Croce marcante il luogo, a Giulino di Mezzegra, dove Mussolini fu ucciso

Gli elementi storicamente certi della vicenda, per tali intendendosi quelli che all'attendibilità delle versioni affiancano la non probabilità di ipotesi contrarie, sono davvero pochi.

Nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana, Mussolini si reca a Milano per trattare la resa con la mediazione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster. Ma il CLN non accetta la proposta; inoltre, Mussolini confidava nell'appoggio dei tedeschi, i quali invece si erano già arresi. Quando Mussolini ebbe la notizia, s'infuriò moltissimo, dicendo che i tedeschi avevano trattato gli italiani sempre come servi e in quel momento cruciale li avevano traditi [2]. Nel tardo pomeriggio del 25 aprile, Mussolini lascia Milano e parte in direzione del lago di Como, verso la frontiera con la Svizzera. I motivi di tale scelta, a quanto sembra, furono il tentativo di raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane alcuni gerarchi fascisti prospettavano di costituire un estremo baluardo di resistenza, oppure tentare di entrare nella neutrale Svizzera ed avviare da lì trattative con diplomatici americani. La notte raggiunge la prefettura di Como e si ferma lì fino all'indomani.

Il pomeriggio del 26 aprile riparte, scortato da alcuni gerarchi fascisti, dall'amante Claretta Petacci che l'aveva raggiunto nel frattempo e da un gruppo di SS che avevano ricevuto l'ordine da Hitler di scortare il Duce verso la Germania (e sorvegliarlo, onde evitare che tentasse la fuga in Svizzera). Dopo essersi spostato nel piccolo paese di Grandola ed Uniti, esattamente nella frazione di Cardano, alloggiando per la notte presso l'Hotel Miramare (cosi indicato sulle cartine militari dell'epoca, identificato localmente come "Hotel Miravalle"). Questo Hotel era sito a pochi metri di distanza dal campo di Golf di Menaggio frequentato da persone vicine agli Anglo-Americani, in prossimita della stazione ferroviaria di Cardano, sulla linea Menaggio-Porlezza (attualmente non più in uso). La zona fortificata come ultimo fronte fin già dal 1915 (ancora individuabile dalle costruzioni presenti), che è nei pressi della frontiera, era ben conosciuta anche per alcuni studi topografici fatti nel periodo fascista per il possibile sfruttamento minerario, ed inoltre la vicinanza con il confine raggiungibile direttamente dalla strada per il Piano, poi Porlezza e infine si giunge a Lugano, via lago o strada. Incredibile che non abbia tentato di evitare di essere fermato da qualche posto di blocco. I partigiani della zona erano molto presenti sul lago di Como, anche se poco verso quel confine che era zona franca di contrabbando di spalloni, i quali avevano facile accesso alla Svizzera (in circa un'ora di cammino). Inoltre non si capisce quale fu l'influenza della nobiltà e della borghesia locale. Quello che forse lo fermò, è che non sapeva che le truppe Svizzere presenti sin a qualche giorno prima sul confine erano state spostate presso la frontiera di Chiasso, per impedire lo sbando delle truppe Tedesche in ritirata.

La mattina del 27 aprile il Duce (non riuscendo a distaccarsi dai tedeschi), con i gerarchi fascisti con famiglie al seguito, ritorna verso il lungolago a Menaggio e si aggrega ad una colonna di tedeschi in ritirata verso il nord, i quali intendono probabilmente tentare di passare il confine verso i Grigioni (frontiera più disponibile e meno difesa dagli Svizzeri, poiché le truppe Svizzere erano state spostate a Chiasso) o puntare verso l'Alto Adige e da lì in Germania. Proseguono fino a Musso. Lì vengono fermati dai partigiani, che iniziarono a trattare coi tedeschi riguardo al permesso di poter proseguire e giungono al seguente accordo: i tedeschi possono proseguire per alcuni chilometri fino al prossimo posto di blocco partigiano, ma i fascisti saranno arrestati subito. Mussolini, su consiglio del capo della sua scorta SS, il tenente Fritz Birzer, indossa un cappotto e un elmetto da sottufficiale della Wehrmacht e sale su uno dei camion dei soldati tedeschi, occultandosi in fondo al pianale, verso l'abitacolo di guida. Gli altri gerarchi fascisti vengono quasi tutti arrestati ed il giorno seguente fucilati sul lungolago di Dongo. Gli autocarri tedeschi (con a bordo il Duce) proseguono, ma giunti al successivo posto di blocco viene fatto un controllo e Mussolini viene riconosciuto da un partigiano (soprannominato Bill) e immediatamente arrestato. Viene portato via sotto scorta armata e viene piantonato da due giovani partigiani presso una famiglia di antifascisti (casa De Maria) a Bonzanigo, una frazione di Mezzegra, dove nel frattempo viene portata anche Claretta, che aveva espresso il desiderio di poter condividere la prigionia con lui.

Fin qui l'esigua traccia certa. Di qui si innestano invece diverse altre ricostruzioni che, si badi, non solo sono fra loro in qualche punto contrastanti, ma che nemmeno furono sempre narrate, nel tempo, allo stesso modo.

Da qui prelevati, secondo la versione ufficiale, poi cambiata almeno quattro volte dallo stesso colonnello Valerio (nome di battaglia del partigiano Walter Audisio), poco dopo le ore 16 del 28 aprile Mussolini e Claretta Petacci vengono fucilati a Giulino di Mezzegra. Eseguite lo stesso giorno le condanne degli altri gerarchi a Dongo, il 29 aprile i cadaveri sono trasportati a Milano ed esposti in piazzale Loreto. La folla - memore della strage lì perpetrata dei nazifascisti il 10 agosto del 1944, quando 15 partigiani erano stati fucilati ed esposti al pubblico - subito si accanisce contro i corpi. Per evitare lo scempio, i cadaveri vengono issati a testa in giù e appesi alla pensilina di un distributore di benzina.

Permangono dubbi sui materiali esecutori della condanna a morte, sulle reali motivazioni, sui passaggi di consegne dal luogo della cattura sul camion tedesco fino a piazzale Loreto, sugli eventuali rapporti con inviati di potenze straniere; la quantità di dubbi è tale da inficiare conseguentemente l'attendibilità anche dei riferiti dettagli tecnici e pratici, come ad esempio luoghi e persone.

Il colonnello Valerio

 
Ricostruzione dell'uccisione di Benito Mussolini. Un uomo indica un punto preciso del muro dove avvenne la fucilazione a Giulino di Mezzegra, ottobre 1945, foto di Federico Patellani

Walter Audisio (conosciuto anche col nome di battaglia di colonnello Valerio o colonnello Giovanbattista Magnoli) era al tempo capo di un raggruppamento delle forze partigiane con funzioni di polizia. La sua figura emerse, direttamente con riferimento a questi fatti, negli anni '60, quando il quotidiano "L'Unità" (organo del PCI, per il quale Audisio fu poi deputato) diede notizia del suo coinvolgimento. Metà della notizia non era in verità nuovissima, essendo il nome del colonnello Valerio già circolato nell'immediato, ciò malgrado non se ne conosceva l'identità e l'Audisio non aveva mai dato modo di parlare di sé, solo essendo noto in qualche ambiente di militanza; tutti "sapevano" che Mussolini era stato fucilato dal colonnello Valerio, ma nessuno avrebbe detto che si trattasse di Audisio. Identificandosi con quel Valerio, Audisio sostenne, non senza qualche contraddizione fra le sue stesse versioni, di essere in pratica il responsabile e l'autore materiale della fucilazione di Mussolini.

Nella notte tra il 27 e il 28 aprile 1945, affermò, ricevette dal generale Raffaele Cadorna l'ordine di uccidere Mussolini. Si trattava comunque di un ordine che contraddiceva le clausole dell'armistizio di Cassibile e gli accordi sottoscritti dal CLNAI, secondo i quali Mussolini doveva essere consegnato vivo agli Alleati. Secondo alcuni storici parte delle forze partigiane temevano che una volta consegnato agli alleati sarebbe stato rimesso al potere nell'arco di qualche anno, da qui la decisione di non rispettare gli accordi dell'armistizio e di procedere alla sua condanna a morte. Alle 7 del mattino successivo, un convoglio guidato dal colonnello Valerio partì alla volta di Como, ove si trattenne fino alle 12.15, per poi spostarsi a Dongo, dove arrivarono alle 14.10. Qui Valerio e i suoi uomini avrebbero comunicato ai partigiani locali che avevano in custodia Mussolini ed i gerarchi dal pomeriggio avanti e di voler fucilare i prigionieri.

Di fronte al rifiuto dei partigiani locali di rivelare dove si trovasse Mussolini, che essi volevano portare a Como, Audisio ricorse ad un espediente ed alle 15.15 poté partire con una Fiat 1100 nera verso Giulino di Mezzegra, distante 21 km, più a sud, dove - in frazione Bonzanigo l'ex dittatore era tenuto prigioniero presso una famiglia di Antifascisti (casa De Maria).

Da questo punto la narrazione diviene meno chiara. Audisio fornì ben quattro differenti versioni della sua presentazione a Mussolini. Ciò provocò in seguito polemiche e dubbi sul modo in cui effettivamente si svolsero i fatti.

Molti testimoni affermarono che, usciti di casa, Audisio, i partigiani e Mussolini si recarono alla macchina. Nessuno dei testimoni ha però saputo dire con esattezza quanti fossero i partigiani di scorta e come fossero vestiti i prigionieri. Mussolini e la Petacci, saliti dietro, furono fatti scendere in un angusto vialetto (via XXIV Maggio) davanti a Villa Belmonte, un'elegante residenza della zona situata in posizione assai riparata. Quello che lì accadde è ancora oggi poco chiaro, complici le diverse versioni di Valerio così come di Guido e Michele Moretti, gli altri 2 partigiani che si trovavano con lui in quel momento (l'autista dell'auto e l'altro passeggero sul sedile anteriore).

Sempre secondo Valerio, apprestandosi ad eseguire la fucilazione, gli si incepparono il mitra e la pistola. Per sparare a Mussolini usò perciò l'arma di Moretti, il quale però, dopo la morte di Audisio, affermò di essere stato lui a sparare perché le armi di Audisio non funzionavano. Inoltre Guido affermò d'aver sparato il colpo di grazia, che però venne rivendicato anche da un altro partigiano azzanese.

Alle 17 il colonnello Valerio ritornò a Dongo per fucilare gli altri gerarchi, dopo aver lasciato alle 16.20 Guido e Moretti di guardia ai corpi davanti a Villa Belmonte. Alle 17.48, a Dongo, tutti i 16 gerarchi erano morti.

Caricati i loro cadaveri su un camion, Valerio partì per Milano verso le 20, passando a recuperare anche i corpi di Mussolini e della Petacci. Durante il viaggio di ritorno la colonna si imbatté in altri partigiani e in posti di blocco alleati che le diedero qualche problema. Tuttavia alle 3.40 di domenica 29 aprile giunse in Piazzale Loreto.

Piazzale Loreto (29 aprile 1945)

 
I corpi di Mussolini (secondo da sinistra) e di Petacci (riconoscibile dalla gonna) esposti a Piazzale Loreto. Il primo cadavere a sinistra è di Paolo Zerbino. Gli ultimi due a destra sono Pavolini e Starace.

Ad oggi nessuno sa con esattezza chi diede l'ordine di portare i cadaveri in quel piazzale. Il CLN emise in giornata un messaggio di deplorazione firmato da tutte le sue componenti, inclusa la comunista. Nessuno, tuttavia, si assunse la responsabilità di aver ordinato il trasporto delle salme in quel luogo. Solo Valerio disse più tardi che l'ordine era partito dal comando generale, ma non venne creduto. Audisio decise di scaricare i cadaveri nel lato della piazza in cui il 10 agosto 1944, per rappresaglia, i tedeschi avevano fatto uccidere dai fascisti quindici partigiani. I corpi dei 15 uomini erano stati lì abbandonati in custodia a militi fascisti, che li avevano dileggiati e lasciati esposti al sole per l'intera giornata, impedendo ai familiari di raccogliere i loro resti.

Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani lasciati di guardia alle salme dormivano, i primi passanti si accorsero dei cadaveri. Qualche ora dopo la piazza si riempì, complice un passa-parola che aveva in un lampo attraversato tutta Milano. Iniziava così una vicenda che pochi anni fa è stata resa di pubblica notorietà nei suoi dettagli più scabrosi con la pubblicazione di alcuni reperti filmati girati dalle truppe americane di occupazione, che per decenni erano rimasti secretati; ne venivano confermati i resoconti già in precedenza anticipati da altri testimoni (ad esempio Indro Montanelli), ma che non erano stati creduti per la loro crudezza.

Nella piazza si udirono scariche di mitra, le prime file di folla venivano spinte verso i cadaveri calpestandoli, prendendoli a calci. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi e persone delle prime file sputavano sui corpi, a Mussolini fu messo in mano un gagliardetto fascista, fu sfilata la cintura e tolto lo stivale destro (presumibilmente i due oggetti furono presi per essere conservati come ricordo del duce) e qualcuno orinò sul cadavere della Petacci.

 
Il distributore visto da altra prospettiva

In piazzale Loreto giungeranno da Dongo 18 salme:

Al gruppo dei cadaveri venne aggiunto anche il corpo senza vita del gerarca Achille Starace, appena catturato nei dintorni, mentre ignaro di tutto era uscito di casa in tuta da ginnastica per la quotidiana corsa, e fucilato con una raffica di mitra alla schiena. Alle 11, dopo che una squadra di Vigili del Fuoco giunta con un'autobotte avevano lavato abbondantemente i cadaveri imbrattati di sangue, sputi e ortaggi, gli stessi pompieri ne appesero cinque per i piedi, alla pensilina del distributore di carburante ESSO allo sbocco di Viale Brianza, secondo alcuni per fare in modo che tutti potessero vedere i cadaveri, secondo altri quasi a voler preservare i più odiati dall'oltraggio della folla[3][4]. Si trattava dei corpi di Mussolini, di Claretta Petacci (per la quale la mano pietosa di Don Pollarolo, prete al seguito dei partigiani, procurò - chiedendola a una donna presente tra la folla - una spilla da balia per tenere a posto la gonna[5][6]), di Nicola Bombacci, di Alessandro Pavolini, di Paolo Zerbino[7].

Verso l'una del pomeriggio una squadra di partigiani, su ordine del comando, entrava in piazza e deponeva i cadaveri.

Le traversie della salma

 
Mussolini e la Petacci all'obitorio, prima dell'autopsia

Dopo l'autopsia, che individuò la causa mortis nella recisione dell'aorta da parte di un proiettile, la salma di Mussolini fu seppellita nel cimitero Maggiore di Milano. Il tumulo aveva il numero 384 e sebbene non vi fosse stato apposto alcun nome, proprio per evitare di far identificare il cadavere, ben presto la gente individuò il posto, che divenne meta di molti curiosi e di qualche commosso nostalgico.

La notte tra il 22 aprile e il 23 aprile 1946 tre fascisti, Mauro Rana, Antonio Parozzi e Domenico Leccisi, facenti parte del Partito Democratico Fascista, trafugarono la salma. In due lettere all'Avanti! e all'Unità il gruppo comunicò che il partito fascista, non avendo ottenuto risposta alle richieste di una sepoltura di Mussolini, decise di prendere in custodia la salma. Si scatenò la caccia alla salma, che la voce popolare chiamò il salmone.[8]

 
Interno della cripta Mussolini nel cimitero di San Cassiano a Predappio

Si sospettò che fosse stata trafugata allo scopo di richiedere un riscatto, quantunque i familiari di Mussolini (i più probabili diretti interessati) erano, ovviamente, di impervia rintracciabilità e comunque non disponevano di agi tali da giustificare l'eventuale estorsione. Dal 7 maggio dopo aver fatto girare la salma per tutta Milano, i trafugatori decisero di disfarsene consegnandola ai Padri Alberto Parini ed Enrico Zucca, frati minori dell'Angelicum di Milano.[9]

La salma rimase nel convento per qualche tempo fino a che la polizia non venne a sapere tutta la storia dalla fidanzata di un amico di Leccisi. Padre Parini, che inizialmente aveva opposto un labile "segreto confessionale", decise infine di rivelare dove si trovava il corpo solo a patto che gli fosse garantita una sepoltura degna e occulta. La lugubre faccenda venne risolta, anche grazie all'interessamento di Alcide De Gasperi e del Papa: il 12 agosto 1946 il cadavere venne restituito al questore Vincenzo Agnesina.[10] Nel 1957 la salma fu riconsegnata alla famiglia per essere seppellita nel cimitero di San Cassiano in Pennino, vicino a Predappio.

In anni successivi, furono sollevate voci circa una presunta falsificazione degli esiti dell'autopsia, e fu sostenuto che il dittatore sarebbe stato sottoposto a sevizie; da alcuni si è affermato che anche la Petacci sarebbe stata oltraggiata, prima o dopo il decesso. Di entrambe le tesi non si hanno però prove oggettive.

Il carteggio Mussolini-Churchill, ovvero la pista inglese

Mussolini non aveva mai disdegnato una tradizione nazionale di schedature e fascicolazioni, anzi aveva potenziato, quando era al potere, le organizzazioni di controllo. Risulta addirittura che avesse costruito un suo personale archivio di schede nelle quali si raccoglieva tutto quanto, di privato e di pubblico, si potesse sapere dei personaggi più importanti italiani stranieri. È noto, ad esempio, che vi fosse una scheda su Umberto II di Savoia e sulla sua presunta omosessualità, sebbene nulla si sappia né di questa scheda, né del suo contenuto e quindi delle effettive preferenze del principe (alcuni storici infatti, soprattutto in area anglosassone, paiono assai interessati a questo punto). Ed è noto che tutti i principali esponenti vaticani, a partire certamente dall'attivissimo mons. Montini, erano stati ben seguiti, descritti e analizzati.

Le schede di Mussolini non si trovarono mai. Fu ritrovata qualche traccia dell'archivio segreto, ma mai le schede più importanti, che si suppone che Mussolini abbia voluto sempre portare con sé nei momenti più difficili, sia il 25 luglio 1943, sia abbandonando Salò per l'ultimo viaggio. Erano probabilmente in quelle cartelle che teneva strette a sé, alle quali forse attribuiva il potere di salvargli la vita, magari come arma di ricatto, e che andarono "perse".

E forse oltre alle schede, in quelle cartelle, c'era anche il carteggio con Churchill.

I rapporti di Mussolini con il premier inglese erano infatti un po' meno ostici di quanto la propaganda potesse far apparire: grazie alla mediazione di Dino Grandi, che a Londra fungeva quasi da "agente generale diplomatico", Mussolini aveva stabilito un buon canale di comunicazione diretto con il suo omologo inglese, e pare assai probabile che i loro rapporti non si siano del tutto interrotti con la belligeranza. Grandi, prudente mediatore ed abile affascinatore, aveva negli anni di neutralità avvicinato non poco l'Italia alla Gran Bretagna, ed egli stesso era divenuto "di casa" presso tutte le istituzioni britanniche, al punto che Mussolini era arrivato a dubitare del suo patriottismo richiamandolo in sede; ciò malgrado, Mussolini gli era debitore dello spessore dei rapporti con Churchill, che si era accresciuto oltre le previsioni (e le dichiarazioni) e, nonostante le reciproche campagne nazionalistiche sguazzassero spesso nell'insulto, i due erano entrambi convinti di avere qualche destino da condividere. Entrambi avevano vedute politiche di lungo spettro ed entrambi paventavano un potenziale successo tedesco, come quello sovietico, come quello americano, quest'ultimo eventualmente conseguente alle cospicue manovre di interessamento che da Washington si intensificavano sui cieli europei.

Inoltre, la questione mediterranea restava un importante nodo che solo i due stati, ed essi soli, avrebbero potuto gestire con tanta agilità quanto vantaggio: stante la supremazia pressoché assoluta delle rispettive marine militari, Italia ed Inghilterra avrebbero potuto, coordinate in un'eventuale alleanza, facilmente appropriarsi di quelle acque, condizionare perciò i rapporti fra l'Europa e l'Africa (strozzando anche il colonialismo francese in quel continente), oppure impadronirsi dei canali di rifornimento petrolifero, dal Medio Oriente ed attraverso il Canale di Suez. Non si è escluso che lo stesso Churchill possa aver favorito alcuni pour-parler anche nel timore di una possibile soluzione, prevista e poi effettivamente verificatasi, in stile "Yalta".

Vi erano perciò molti punti sui quali, secondo molti osservatori, si sarebbero allestite trattative dirette, del tutto prescisse dagli accordi che le parti avevano al momento in corso con altre potenze (esempio: Operazione Sunrise). E potrebbe darsi il caso, si sostiene, che nelle famose cartelle ve ne fosse un'imbarazzante, quanto eventualmente perniciosa, traccia documentale. Anche perché le dette affermazioni di Mussolini sulla loro importanza parrebbero condurre a documenti di almeno simile importanza e, seppure nell'appannamento della disfatta, non pare credibile che Mussolini pensasse di salvarsi - come pure fu sostenuto - ricattando ad esempio Umberto per (peraltro non provate) stravaganze private.

L'esistenza del carteggio è stata per lungo tempo negata, sia da parte italiana che da parte inglese. In un primo tempo anche Renzo De Felice si mostrò scettico, salvo poi effettuare una ricerca specifica che lo avrebbe indotto a parlare di "congiura del silenzio" e ad ipotizzare che non solo l'esistenza del carteggio era nota da prima della guerra, non solo il carteggio sarebbe stato intenzionalmente cercato, trovato e distrutto, ma che con il carteggio si sarebbe distrutto altro materiale detenuto da Mussolini, ad esempio sul delitto Matteotti (su questo De Felice si sarebbe poi scontrato violentemente con Palmiro Togliatti), e su altre vicende riguardanti la sinistra italiana.

L'inchiesta di alcuni giornalisti, fra cui Peter Tomkins, ex agente segreto americano a Milano durante la guerra, trasmessa dal canale televisivo "Rai Tre" nel programma "La Grande Storia", formulò l'ipotesi che Mussolini sia stato ucciso da agenti segreti inglesi interessati a impossessarsi del carteggio fra Churchill e Mussolini.

Il carteggio sarebbe stato compromettente per Churchill - si sostiene - perché ipotizzava una pace separata in funzione anti-sovietica. L'inchiesta riporta la testimonianza di Bruno Giovanni Lonati, a quel tempo partigiano comunista nelle Brigate Garibaldi a Milano, che dice di essere stato, insieme ad un agente italo-inglese di nome John, l'esecutore materiale dell'uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci. [2] [3]

Bruno Lonati, tra i pochi presunti attori di questa vicenda ancora in vita, sostiene anche l'esistenza di una foto che proverebbe la sua versione dei fatti. Questa foto, segretata insieme al rapporto sulla missione, sarebbe custodita a Milano all'ambasciata inglese che, nonostante siano ormai trascorsi i 50 anni previsti dal segreto militare, si rifiuterebbe di rendere pubblica.

I sostenitori di questa ipotesi ricordano che nell'immediato dopoguerra lo statista inglese, ormai privato cittadino, insieme a membri del suo entourage compì numerosi viaggi e soggiorni turistici in località del Lago di Garda e del Lago di Como, zone in cui Mussolini svolse la propria attività negli ultimi anni o che furono teatro del suo tentativo di fuga. Quivi si sarebbe più volte "per caso" incontrato anche con Junio Valerio Borghese, comandante della Xª Flottiglia MAS, e con il suo fidatissimo comandante Nesi, i quali pur non condividendo con Churchill la presunta passione per la pittura, trovarono qualche argomento per riempire lunghe conversazioni.

Il carteggio, conclude l'inchiesta, se è esistito e se è stato ritrovato, non sarebbe stato reso pubblico perché chi ne conosceva l'esistenza temeva le conseguenze politiche della diffusione, in uno scenario in cui i rapporti fra le potenze vincitrici cominciavano a deteriorarsi.

Tra le ipotesi che si sono avanzate c'è anche quella che immagina che gli inglesi nel 1940 abbiano chiesto a Mussolini di entrare in guerra al fianco dei tedeschi per ammorbidire le richieste di Hitler ai francesi alle trattative di pace che presto si sarebbero dovute tenere. Questa ipotesi, si noti, non gode però di gran seguito, al contrario di quella affine che vorrebbe che Churchill avesse caldeggiato un intervento di Mussolini su Hitler perché volgesse le sue principali attenzioni al fronte sovietico, ciò che, si è congetturato, potrebbe finalmente fornire una ragione alle due spedizioni italiane (CSIR e ARMIR) sul cammino detto dei "girasoli".

La tesi del carteggio Mussolini-Churchill tra l'altro pone un dubbio addirittura sul dubbio stesso che a recuperare il carteggio siano stati agenti inglesi. In un'alternativa più plausibile (alla luce degli eventi seguenti) sarebbero stati recuperati da agenti italiani e consegnati ad Alcide De Gasperi, il quale li avrebbe utilizzati come mezzo di pressione su Churchill per ottenere un trattamento migliore per l' Italia nei trattati di pace. Cosa che effettivamente fu[11].

I dubbi italiani

Di quasi tutti gli elementi delle cronache si è dubitato, talvolta con clamore, spesso con gusto per l'intrigo, in qualche occasione con baccanali dietrologici, in un senso o nell'altro. Data la scarsa disponibilità di dati certi, si alimentarono nel corso del tempo ipotesi delle più disparate, aprendo a potenziali scenari di vasta portata.

Sull'argomento sono stati scritti molti testi, una buona quota dei quali con l'intento di abbattere una presunta "verità ufficiale" che ne avrebbe mascherato altre più imbarazzanti. Nonostante una neutralità sulla materia sia rarissima anche in storia, la mole delle ricerche effettuate si è tuttavia tradotta in numerosi spunti interessanti anche in ricerche scopertamente "a tema". Il fatto che la verità ufficiale - se di tale si tratta - sia stata eventualmente "confezionata" dalle sinistre, spiega perché la ricerca "alternativa" sia principalmente provenuta da destra, col noto esempio del testo di Giorgio Pisanò, giornalista ed ex senatore del MSI.

Egli, infatti, nell'inchiesta contenuta nel suo libro sulla morte di Mussolini, sostiene che la Petacci sarebbe stata vittima di stupro di gruppo ad opera dei partigiani e che (come Mussolini) non sarebbe morta a causa della fucilazione, ma a causa delle sevizie subite, ovvero in seguito a gravi emorragie dovute all'intromissione violenta di un bastone, od oggetto similare, negli orifizi ano-vaginali.

Tale ipotesi è stata espressa in seguito ad un'intervista radiofonica ad un medico che affermava d'aver assistito all'esame autoptico della donna, rilevando le tracce di liquido seminale e le lesioni interne.

Vengono inoltre citati strani ed apparentemente insensati episodi come l'ordine del CNL (inviato dal prof. Pietro Bucalossi, il «partigiano Guido») di non effettuare l'autopsia sulla Petacci e lo scontro tra formazioni partigiane avvenuto prima dell'esposizione di Piazzale Loreto.[senza fonte]

Il furgone che trasportava il corpo della Petacci e degli altri fucilati, venne fermato in via Fabio Filzi ad un posto di blocco partigiano operato da una formazione delle Brigate Garibaldi. I partigiani a bordo del furgone si rifiutarono di mostrare i corpi trasportati. Le due formazioni armate si fronteggiarono sino all'intervento del comando generale.

Il percorso

 
In rosso il percorso fino al primo confine svizzero; in giallo il percorso più breve per la Valtellina; in viola il percorso di Mussolini (proseguendo fino a Colico anch'esso permette di raggiungere la Valtellina)

Si dice che Mussolini si stesse recando in Svizzera per fuggire. Tuttavia non è chiaro il motivo per cui Mussolini non sia entrato in Svizzera una volta giunto nei dintorni di Como o Chiasso, ma abbia proseguito la fuga lungo il lago finendo a Dongo. Si è ipotizzato che Mussolini intendesse tentare di raggiungere i tremila uomini del generale Onori (il quale aspettava ancora i mille uomini del maggiore Vanna) in Valtellina per un'ultima resistenza nel "Ridotto alpino repubblicano" Resta comunque molto accreditata la tesi della fuga in Svizzera, come possono sostenere le richieste di contatto, tramite l'Arcivescovado milanese con le autorità elevetiche immediatamente prima di lasciare Milano e come ebbe modo di dichiarare il tenente Birzer. Birzer aveva ricevuto direttamente da Hitler il compito di non lasciare mai Mussolini:ne risponderà con la vita se ciò dovesse avvenire, disse Hitler a Birzer e si può ben immaginare come il tenente non volesse correre rischi. Fu lui, con i suoi uomini, a impedire all'ultimo minuto un tentativo di fuga, quando Mussolini,la Petacci ed almeno altri due gerarchi erano quasi riusciti nell'intento di attraversare il confine. Le dichiarazionid i Birzer sono citate nel libro I tedeschi in italia, di Silvio Bertoldi, S&K editori.

Ipotesi sull'identità di "Valerio"

Innanzitutto si è messo in dubbio che davvero il ragionier Audisio fosse il "colonnello Valerio". A sostegno di questa tesi vi è la considerazione del passato politico di Audisio, di rilievo ma non di primissimo piano. Si è supposto che Audisio non sia stato altro che una copertura per qualcun altro, cioè che Audisio si sia attribuito questo ruolo, eventualmente richiestone, per stornare l'attenzione da personaggi ben più di spicco, che non avevano interesse a figurare come gli esecutori di Mussolini e della Petacci e che urgevano allontanare da sé i sospetti. Uno dei "papabili", cui poteva essere stato in verità affidato tale incarico, era Luigi Longo, che sarebbe in seguito divenuto segretario nazionale del PCI, e che, sempre intorno a questi accadimenti, fu citato a margine anche delle vicende relative al cosiddetto "oro di Dongo"; ma furono fatti anche altri nomi, come quello di Sandro Pertini (sebbene principalmente perché orgoglioso autore in precedenza di alcuni atti violenti contro altre personalità - come le fucilate contro la residenza di Umberto II - che per suo conto aveva già da tempo comminato la condanna a morte). Longo, che assunse più nomi di battaglia durante la resistenza, restò fra gli storici il più accreditato fra i potenziali "veri" autori, mentre l'autoaccusa di Audisio fu da molti presa come appunto una semplice macchinazione; contribuì certo a questo convincimento l'espresso racconto proprio in questo senso prodotto da uno dei partigiani che avevano catturato Mussolini.

Se Audisio del resto si fosse autoaccusato dell'omicidio al posto di altri, avrebbero trovato spiegazione le discrepanze fra i suoi racconti: se davvero Audisio era Valerio, e se davvero Valerio aveva ucciso Mussolini, si sostenne, sarebbe stato assai probabile che ne avrebbe ricordato per sempre ogni dettaglio. Non avrebbe cioè provato tanta difficoltà a ricordare allo stesso modo la stessa cosa in occasioni diverse. E vi sono poi nei suoi racconti anche affermazioni che destarono perplessità. Molti osservatori effettivamente hanno trovato alquanto singolare l'affermazione che Cadorna avesse trasmesso l'ordine di uccidere Mussolini, sia perché eccessivo per la posizione del generale (del quale si dubitò che, nonostante fosse il comandante del Corpo dei Volontari della Libertà, potesse avere la necessaria autorevolezza), sia perché del tutto antitetico anche ad alcune disposizioni contenute nell'armistizio di Badoglio. Principalmente, invero, un simile ordine avrebbe piuttosto dovuto pervenire da una qualche "autorità" più prettamente politica del fronte partigiano, ad esempio - eccolo citato ancora una volta - da Longo, da Pertini, da Valiani o da altri di pari rango.

Minore, ma non meno difficile da classificare, era anche il contrasto fra la paterna ammonizione impartita alla Petacci ("Mettiti al tuo posto se non vuoi morire anche tu") e l'effettiva uccisione della stessa, atto poi di fatto da tutti condannato, anche poiché la Petacci non aveva mai avuto, né preteso, la possibilità di imporre influenze politiche.

Va in ogni caso sottolineato che, nonostante le incongruenze illustrate, l'effettiva identitificazione di Valerio con Audisio non è mai stata definitivamente smentita.

Chi sparò a Mussolini? E dove?

Audisio Valerio, come noto, disse di aver sparato personalmente, dopo aver superato singolari inceppamenti di tutte le sue armi (avvenuti per di più, dopo averle - stranamente - provate prima dell'uso), e di aver dato il colpo di grazia. Anche gli altri, suppostamente presenti, affermarono lo stesso. E vi fu anche il deputato comunista Massimo Caprara (che fu segretario di Togliatti) il quale sostenne essersi trattato di un tal Aldo Lampredi (forse il partigiano "Guido"), in realtà oscuro ma fedele ed eroico funzionario del Komintern. Non tutti evidentemente potevano aver contemporaneamente detto la verità.

Corollario di questa articolazione di versioni era poi la discrepanza sulla località di esecuzione.

Da una recente analisi medica effettuata sulle foto dell'epoca dei cadaveri di Mussolini e della Petacci e la documentazione medico-legale dell'epoca, risulterebbero chiare incongruenze con le versioni fin qui note oltre che con il referto dell'autopsia. Inoltre la testimonianza di Dorina Mazzola (19-enne all'epoca), vicina di casa dei De Maria (presso i quali erano trattenuti dai partigiani Mussolini e Petacci), confermerebbe un'uccisione verso le 10 del mattino del 28 aprile con colpi sparati a distanza ravvicinata (secondo la recente analisi medico-legale non superiore ai 50 cm) e altri colpi sparati poi (raffica?) alle spalle di entrambi[12] nel cortile della casa De Maria, con Mussolini semivestito in maglia intima e senza stivali[13].

Bibliografia

  • Bruno Giovanni Lonati, Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità. Mursia, 1994. ISBN 8842517615
  • Giorgio Pisanò, Gli ultimi cinque secondi di Mussolini, Il Saggiatore, Milano, 1996.
  • Franco Bandini, Le ultime 95 ore di Mussolini, Sugar, Milano, 1959.
  • Pierluigi Baima Bollone Le ultime ore di Mussolini, Mondadori, Milano, 2005.
  • Andrea Jelardi, Goffredo Coppola, un intellettuale del fascismo fucilato a Dongo, Mursia, Milano 2005.
  • Andrea Jelardi, Sanniti nel ventennio tra fascismo e antifascismo, Realtà sannita, Benevento 2007

Note

  1. ^ Fabio Andriola, "Mussolini-Churchill, carteggio segreto", ed. Piemme, Casale Monferrato, 1996
  2. ^ http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=511
  3. ^ Attilio Tamaro, "Due anni di storia, 1943-1945"
  4. ^ La successiva ristrutturazione della piazza, di vaste dimensioni, ha eliminato il distributore di benzina, ed oggi non vi è alcun riferimento visibile nel luogo esatto in cui avvenne il fatto.
  5. ^ http://www.ilsecoloxix.it/italia_e_mondo/view.php?DIR=/italia_e_mondo/documenti/2007/12/05/&CODE=f7eab8d2-a329-11dc-85dc-0003badbebe4
  6. ^ Tale soluzione si rivelò però inefficace e così intervennero i pompieri a provvedere a mantenere ferma la gonna con una corda. Da tenere presente che il corpo di Clara Petacci era sprovvisto in quel momento di mutandine che erano state da lei lavate e messe in tasca umide poco prima di venir uccisa
  7. ^ in Indro Montanelli, Corriere della Sera, Colloqui coi lettori, 13 gennaio 1999
  8. ^ Giorgio Bocca. Storia della Repubblica Italiana. Dalla caduta del fascismo ad oggi. Rizzoli, 1982
  9. ^ Giorgio Bocca. Storia della Repubblica Italiana. Dalla caduta del fascismo ad oggi. Rizzoli, 1982
  10. ^ Giorgio Bocca. Storia della Repubblica Italiana. Dalla caduta del fascismo ad oggi. Rizzoli, 1982
  11. ^ Fabio Andriola, "Mussolini-Churchill, carteggio segreto", ed. Piemme, Casale Monferrato, 1996
  12. ^ Il petto della Petacci sembrerebbe mostrare non solo fori di entrata, ma anche di uscita dei proiettili, cosa che contrasta con le affermazioni dei partigiani che sostengono di aver sparato solo di fronte durante la fucilazione.]
  13. ^ [1]

Voci correlate

Collegamenti esterni


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